Le sanzioni alternative ex art. 123 cpa: la riduzione della durata del contratto. Configurabile il diritto dell’appaltatore ad un indennizzo?

a cura di Stefano Taddeucci

4 Gennaio 2021
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Ai sensi dell’art. 123 del D.lgs. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo, di seguito “CPA”), il Giudice il quale annulli l’aggiudicazione ma al tempo stesso non dichiari inefficace il contratto oppure lo dichiari inefficace solamente in parte, può condannare la stazione appaltante (di seguito “SA”) ad una pena pecuniaria, il cui importo deve essere versato all’entrata del bilancio dello Stato.

Il Giudice, inoltre, può anche applicare come sanzione, o alternativamente o cumulativamente alla pena pecuniaria, quella della “riduzione della durata del contratto, da un minimo del dieci per cento ad un massimo del cinquanta per cento della durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo”.

Le sanzioni di cui si tratta vengono irrogate dal Giudice, ai sensi dell’art. 121 comma 1 CPA, nei seguenti  casi:

– il fatto che l’aggiudicazione sia stata disposta senza previa pubblicazione di un bando, quando tale pubblicazione è prescritta (lett. a);

– il fatto che l’aggiudicazione sia stata disposta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando, quando tale pubblicazione è prescritta (lett. b);

– se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall’art. 32 comma 9 del Codice, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto, a condizione che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento (lett. c);

– se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 32 comma 11 del Codice, a condizione che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento (lett. d)

Come si può vedere, quindi, le sanzioni ex art. 123 CPA vengono comminate dal Giudice a seguito della violazione, da parte della stazione appaltante (e non certo dell’operatore economico affidatario), delle norme poste a tutela della legittimità dell’intero procedimento di aggiudicazione.

Ebbene, il fatto che il Giudice possa disporre la riduzione della durata del contratto, incide negativamente sulla sfera giuridica dell’appaltatore, che però nessuna responsabilità ha avuto nell’illegittimità degli atti della procedura di affidamento. Tale riduzione determina a carico di quest’ultimo una perdita patrimoniale consistente nel non poter incamerare il corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto. In sostanza, l’appaltatore viene chiamato a rispondere di violazioni commesse solo ed esclusivamente dalla stazione appaltante.

Qui bisogna vedere che tipo di significato il legislatore abbia voluto attribuire alla riduzione della durata del contratto.

Quest’ultima è stata prevista per obbligare la SA, a seguito della riscontrata illegittimità del suo operato, a rifare ex novo una procedura che sia effettivamente legittima, in modo da garantire che l’interesse pubblico oggetto dell’appalto venga (stavolta) soddisfatto conformemente alle prescrizioni del Codice, cosa che appunto non era avvenuta con la procedura originaria (tant’è che il Giudice aveva appunto annullato l’aggiudicazione).

Il problema, però, come sopra evidenziato, è che tale riduzione si ripercuote negativamente sull’appaltatore, a cui nessuna responsabilità è attribuibile in merito all’illegittimità della procedura adottata.

L’omessa pubblicazione del bando, nonché la stipula del contratto fatta in violazione dei termini, sono riconducibili unicamente alla SA, che è l’esclusiva responsabile dell’osservanza delle norme procedurali.

Pertanto, ci si chiede se l’art. 123 comma 1 CPA possa essere modificato nel senso di prevedere che la riduzione della durata del contratto, se da un lato determina la cessazione anticipata di quest’ultimo, dall’altro debba comportare, in capo alla SA, l’obbligo di corrispondere all’appaltatore un indennizzo pari alla quota di compenso che questi non potrà percepire a seguito appunto della suddetta riduzione, ossia la porzione di corrispettivo relativa alla parte di appalto rimasta ineseguita a seguito della riduzione.

A simile ipotesi di modifica si potrebbe replicare dicendo che in questo modo l’appaltatore verrebbe a conseguire la medesima utilità contrattuale pattuita all’inizio anche se in virtù di un’aggiudicazione che è stata poi riconosciuta come illegittima, e che quindi l’indennizzo di cui sopra costituirebbe per lui un arricchimento “contra legem”.

Inoltre, va rilevato che, ai sensi dell’art. 108 comma 5 del Codice, l’appaltatore, anche nel caso in cui la SA abbia risolto il contratto in quanto ha accertato che al tempo dell’aggiudicazione egli non era in possesso dei requisiti ex art. 80 oppure perché l’aggiudicazione è stata disposta in grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati come riconosciuto dalla CGUE, ha comunque il diritto al pagamento delle prestazioni che siano state eseguite regolarmente.

Anche nel caso dell’art. 108 comma 5, così come in quello ex artt. 121 comma 1 e 123 comma 1 CPA, siamo in presenza di un’aggiudicazione illegittima.

Ebbene, l’art. 108 comma 5 non prevede affatto che, nonostante la risoluzione (e quindi la cessazione anticipata) del contratto, all’appaltatore debba essere corrisposto un indennizzo pari o comunque rapportato al compenso che egli avrebbe percepito dalla data della risoluzione fino a quella della naturale scadenza del contratto. Esso prevede, semplicemente, il diritto al compenso per le prestazioni eseguite fino alla data della risoluzione.

Di conseguenza, l’art. 123 comma 1 CPA, il quale, nel prevedere la riduzione della durata contrattuale, non contempli una sorta di indennizzo in favore dell’appaltatore, sembrerebbe risultare pienamente legittima.

A questo punto, però, andrebbe anche considerato che, ai sensi dell’art. 1 comma 13 della Legge n. 135 del 07.08.2012, la SA, nel caso in cui sia sopravvenuta una Convenzione Consip la quali indichi un prezzo più conveniente rispetto a quello del contratto stipulato extra Consip e l’appaltatore non si adegui al corrispettivo Consip, è comunque tenuta a pagare all’appaltatore una somma pari al 10% del valore delle opere non ancora eseguite.

In sostanza, l’appaltatore ha comunque il diritto di percepire un indennizzo rapportato all’ammontare dell’appalto non eseguito, e ciò (questo è il punto) anche se la cessazione anticipata del contratto è stata determinata non da un agire illegittimo della SA – che, anzi, ha pienamente rispettato la norma sopra citata, invitando l’appaltatore ad adeguare il proprio corrispettivo a quello Consip – bensì dalla decisione dell’appaltatore di non voler addivenire a tale adeguamento.

Ed allora la domanda è: se un indennizzo rapportato alla parte di appalto rimasta ineseguita spetta all’appaltatore quando la cessazione anticipata del contratto è stata determinata unicamente da una scelta di quest’ultimo (Legge n. 135/2012), a maggior ragione tale indennizzo dovrebbe essere riconosciuto quando la cessazione anticipata è stata determinata dall’agire illegittimo della SA ex artt. 121 comma 1 e 123 comma 1 CPA.

Quindi: o è costituzionalmente illegittimo, ex art. 3 della Costituzione, l’art. 123 comma 1 CPA in rapporto all’art. 1 comma 13 della Legge n. 135 del 07.08.2012, oppure è il contrario.

 

Ora, ferma restando la rilevanza di entrambe le disposizioni sopra citate, alle norme contenute nel CPA dovrebbe comunque essere assegnata una certa prevalenza in quanto “normativa generale”, in quanto è appunto quest’ultima a disciplinare in modo completo, mediante l’art. 123, la fattispecie delle sanzioni conseguenti all’illegittimità del procedimento di aggiudicazione, mentre l’art. 1 comma 13 della Legge n. 135/2012 parrebbe destinata ad essere qualificata come “normativa speciale”, emanata solo ed unicamente per disciplinare la diversa fattispecie della sopravvenienza di Convenzioni Consip con prezzi più favorevoli.

Pertanto, è in ogni caso nell’ambito del CPA che occorre individuare delle norme dalle quali possa desumersi che la riduzione della durata del contratto prevista dall’art. 123 debba essere qualificata come illegittima, alla stregua di principi di superiore rilevanza desumibili dalle suddette norme.

L’art. 30 comma 2 CPA stabilisce che “può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica”.

La riduzione della durata del contratto ex art. 123 CPA consegue all’annullamento giurisdizionale della determina di aggiudicazione, e quindi ad un “illegittimo esercizio dell’attività amministrativa”.

L’art. 30 comma 2 sopra citato prevede sì il diritto al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa, ma richiede, a tal fine, che il danno sia stato “ingiusto”.

La domanda è: il danno che all’appaltatore è derivato dalla riduzione della durata del contratto (ossia il mancato conseguimento dell’utile contrattuale), è stato causato dall’illegittimità dell’aggiudicazione (ossia dalla SA) oppure dalla decisione del Giudice, il quale ha di fatto applicato l’art. 123 CPA?

E’ un punto fondamentale, perché, se si ritiene che il danno sia derivato sostanzialmente solo dalla decisione del Giudice (che poi non ha fatto altro che applicare una norma), è difficile parlare di danno “ingiusto”, oppure lo si può anche fare ma bisognerebbe allora dire che “il danno è ingiusto in quanto è ingiusta la norma”, e pertanto si ritorna a parlare dell’illegittimità costituzionale di quest’ultima.

In questo caso il danno deriva “solo indirettamente” dall’illegittimità dell’aggiudicazione, in quanto proviene direttamente dalla sentenza del Giudice, il quale, una volta constatata tale illegittimità, ha applicato la norma prevista per la fattispecie.

E allora bisogna vedere se nell’ordinamento processuale amministrativo sono risarcibili solo i danni direttamente causati dalla PA oppure anche quelli che da quest’ultima siano derivati in via indiretta.

Intanto, quello che si può dire è che, nei rapporti civilistici, ai sensi dell’art. 1223 c.c. sono risarcibili solo i danni che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento o del ritardo.

Ma qui stiamo parlando di un’altra cosa: qui il danno all’appaltatore (causato dalla riduzione della durata del contratto) è derivato non da un’inadempienza contrattuale da parte della SA, ma dal provvedimento amministrativo di aggiudicazione. E siccome, ex art. 30 comma 8 del Codice, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano non le norme del codice civile (le quali, invece, trovano applicazione nella fase negoziale del rapporto con la SA) bensì quelle contenute nella Legge 241/90 (in quanto non derogate dalle disposizioni del Codice), sarà a queste ultime che occorrerà fare riferimento.

La Legge 241/90 prevede il diritto del privato al risarcimento del “danno ingiusto” nel caso di  inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento (art. 2 bis comma 1);

Quindi, ai sensi della suddetta Legge, il semplice fatto che la PA non abbia (o per dolo o per colpa) rispettato il termine di conclusione del procedimento, non è sufficiente a generare in favore del privato una tutela risarcitoria: occorre che il danno da questi subìto sia stato “ingiusto”.

Cosa si deduce da ciò? Probabilmente che la ingiustizia del danno sussiste solo nel caso in cui, a seguito di tale inosservanza, il privato abbia subìto un danno concreto (e patrimonialmente quantificabile) nella sua sfera giuridica, p. es. il fatto che il privato abbia dovuto rinunciare ad un’utilità economica che egli avrebbe senz’altro percepito se il procedimento si fosse concluso nei termini (quindi, nella sostanza, un lucro cessante). Altrimenti il legislatore, se avesse voluto ricollegare il risarcimento solo ed unicamente al fatto dell’inosservanza del termine, e ciò in nome di una “responsabilità da contatto” per la quale qualsiasi inadempienza della PA nei confronti del privato genera un’obbligazione di risarcimento, avrebbe detto: “il privato ha diritto al risarcimento del danno”, senza la parola “ingiusto”.

Allora, lo stesso discorso si potrebbe fare per il danno derivato all’appaltatore dalla riduzione della durata del contratto: anch’egli ha dovuto rinunciare ad incamerare l’utile contrattuale corrispondente alla parte di appalto rimasta ineseguita, e quindi anche lui, esattamente come il privato nell’ipotesi di cui all’art. 2 bis comma 1 Legge 241/90, ha subìto un lucro cessante. E pertanto, in analogia con quanto previsto dalla Legge 241/90, anche in tal caso si deve parlare di danno “ingiusto”, e come tale risarcibile ex art. 30 comma 2 CPA.

Di conseguenza, la sopra invocata modifica dell’art. 123 CPA, nel senso di prevedere che la riduzione della durata del contratto debba comportare l’obbligo di un ristoro a favore dell’appaltatore, in base all’art. 30 comma 2 del medesimo CPA, non sembra essere poi così infondata.

Stefano Taddeucci