La Corte costituzionale salva l’onere motivazionale per il ricorso all’in house in ottica pro-concorrenziale

La Corte costituzionale, con sentenza n. 100 del 27 maggio 2020, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla II Sezione del T.a.r. Liguria, relativa all’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui prevede l’obbligo di dare conto «delle ragioni del mancato ricorso al mercato» in caso di affidamento in house

8 Giugno 2020
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La Corte costituzionale, con sentenza n. 100 del 27 maggio 2020, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla II Sezione del T.a.r. Liguria, relativa all’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui prevede l’obbligo di dare conto «delle ragioni del mancato ricorso al mercato» in caso di affidamento in house

Corte costituzionale, 27 maggio 2020, n. 100

Il T.a.r. Liguria, con ordinanza del 15.11.2018 (commentata su questo sito), aveva dubitato della violazione dell’art. 76 della Costituzione, apparendo al remittente che la norma fosse viziata per eccesso di delega per il mancato rispetto dei principi e criteri direttivi contenuti all’art. 1, comma 1, lett. a) ed eee), legge 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014).

Molto più in breve, come ricordato dalla Corte, «la questione […] ripropone sotto l’angolo visuale del vizio di delega, il noto dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, sulla natura generale o eccezionale dell’affidamento in house».

Ritenuta «plausibile» la motivazione sulla rilevanza della questione, la Corte l’ha poi giudicata non fondata nel merito.

Quanto al criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), legge n. 1/2016, consistente nel cosiddetto divieto di gold plating, ovverosia nel divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, la Corte ha effettuato alcune precisazioni.

Innanzitutto, la Corte ha chiarito che il cosiddetto gold plating è effettivamente imposto da tale criterio direttivo ma non è un principio del diritto dell’Unione europea, il quale «vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi di scegliere la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per raggiungere i risultati prefissati».

Effettuata tale precisazione preliminare, la Corte ha poi ricostruito quale sia la ratio del divieto nel nostro ordinamento: per la Corte, in sostanza, il divieto avrebbe una «direttrice proconcorrenziale», essendo volto ad allargare il ricorso al mercato e non a ridurlo. Il criterio direttivo in questione, dunque, vieta unicamente l’introduzione di oneri amministrativi, ulteriori rispetto a quelli previsti dalle direttive, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini.

Conferma della correttezza di tale linea interpretativa è tratta dalla lettura del parere n. 855/2016 del Consiglio di Stato sulla bozza di Codice dei contratti pubblici nonché nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE, sez. IX, ord., 6 febbraio 2020, C-89/19 a C-91/19; CGUE, sez. IV, sent., 3 ottobre 2019, C-285/18).

In ragione di ciò, la Corte ha affermato che l’onere motivazionale sulle ragioni del mancato ricorso al mercato, imposto dalla norma della cui costituzionalità dubitava il T.a.r. remittente, «risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza»: non vi è alcun contrasto, dunque, con il criterio direttivo di cui al citato art. 1, comma 1, lett. a), della legge delega.

La Corte ha ritenuto altresì insussistente il contrasto con il criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 1, lett. eee), della legge delega: tale criterio direttivo, semmai, nel voler imporre adeguata pubblicità e trasparenza con particolare riferimento agli affidamenti diretti, rivela una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante. È proprio in tale prospettiva, allora, che «occorre valutare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione circa il mancato ricorso al mercato».

La norma della cui costituzionalità dubitava il T.a.r. Liguria, ricorda ancora la Corte, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che costituisce una costante nel nostro ordinamento, in risposta all’abuso dell’istituto fatto dalle amministrazioni, spesso in danno degli interessi delle imprese e dei cittadini. È significativo che, per avvalorare tale tesi, la Corte richiami altresì una fonte comunemente definita di soft law, vale a dire le linee guida dell’Autorità nazionale anticorruzione per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house. Il richiamo è certamente insolito, considerato il dubbio valore delle linee guida dell’Anac, su cui si è interrogata la dottrina, ma non è tale da indebolire la motivazione della sentenza, trattandosi di un elemento citato ad adiuvandum e che non costituisce certamente un elemento di particolare rilievo nell’iter argomentativo seguito dalla Corte.

La sentenza della Corte, pur non preoccupandosi di superare tutte le argomentazioni di segno contrario fornite dal T.a.r. Liguria, della cui ordinanza non coglie forse tutta la complessità, si fa certamente apprezzare. Non soltanto per la soluzione, che consente alle imprese di tirare un sospiro di sollievo, ma anche per una motivazione asciutta e lineare, al tempo stesso difficilmente contestabile.

La pronuncia ha il merito di riportare l’attenzione sulla funzione positiva della concorrenza, nell’ottica non soltanto di un risparmio per la pubblica amministrazione quanto soprattutto per i benefici che porta al tessuto economico delle imprese e, in definitiva, agli stessi cittadini.

La sentenza, peraltro, si fa apprezzare nel passaggio in cui coraggiosamente “denuncia”, senza mezzi termini, l’abuso dell’istituto dell’in house providing da parte delle amministrazioni: l’istituto, infatti, specialmente negli ultimi anni, è stato troppo spesso considerato come la panacea di tutti i mali, soprattutto dai Comuni, quasi come se nel ricorso al mercato (e nella conseguente salvaguardia del principio di concorrenzialità) dovesse per definizione risiedere il rischio della corruzione.

In definitiva, la pronuncia in commento, preservando l’obbligo di motivazione per il ricorso all’in house providing, destinato così a conservare natura eccezionale, rappresenta certamente una buona notizia per le imprese. La sentenza, però, è ancor più rilevante soprattutto se si pensa agli importanti principi in materia di tutela della concorrenza che opportunamente ribadisce, riaffermando l’importanza del ricorso al mercato (quanto mai cruciale in tempo di crisi) e denunciando le negatività, per il tessuto economico delle imprese, di un istituto come l’in house providing.

Aldo Iannotti della Valle