Affitto di ramo d’azienda, liquidazione giudiziale del locatore e requisiti negli appalti di servizi

Commento alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, del 18 aprile 2025, n. 3418

Sandro Mento 7 Maggio 2025
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Consiglio di Stato, sez. V, 18 aprile 2025, n. 3418

Affitto di ramo d’azienda – artt. 2555, 2558 e 2562 c.c. – art. 94, comma 5, lett. d) d.lgs. n. 36/2023 – artt. 99-100 d.lgs. n. 36/2023 – art. 16, comma 9, Allegato II.12 d.lgs. n. 36/2023 – art. 121 ss. d.lgs. n. 14/20219 (“Codice della crisi d’impresa”) – art. 184, comma 1 Codice della crisi d’impresa – differenza tra affitto di ramo d’azienda e avvalimento – ubi commoda, ibi incommoda     

In base all’art. 16, comma 9 dell’Allegato II.12 al d.lgs. n. 36 del 2023, recante “Sistema di qualificazione e requisiti per gli esecutori di lavori”, in caso di affitto di azienda, “l’affittuario può avvalersi dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni”. La previsione, dettata per gli appalti di lavori, è ritenuta applicabile, dalla giurisprudenza formatasi sulla base della previgente, e analoga, previsione [art. 76, comma 9 d.p.r. n. 207/2010], anche all’appalto di servizi.
 
La possibilità di avvalersi dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice è espressione di un principio generale, che consente all’operatore economico di avvalersi, a determinate condizioni, dell’affitto del ramo d’azienda ai fini dell’attestazione di possesso dei requisiti di qualificazione, così fissando, per gli appalti di lavori [e anche per gli appalti di servizi], il punto di equilibrio fra favor partecipationis e tendenziale stabilità del requisito.
 
Con riferimento a un appalto di servizi, la regola iuris di cui trattasi [art. 16, comma 9 dell’Allegato II.12 al d.lgs. n. 36 del 2023, secondo cui: “l’affittuario può avvalersi dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni”] è logicamente concepibile e quindi valevole solo se riferita ai requisiti connessi ad affidamenti di durata pari o superiore a 3 anni. Mentre, nel caso di un servizio avente durata inferiore, è sufficiente che l’affitto abbia durata superiore alla durata dell’appalto.
 
Il contratto di affitto di ramo d’azienda si differenzia dal contratto di avvalimento, nell’ambito del quale le due soggettività rimangono distinte e titolari della rispettiva impresa anche nel corso del rapporto (di avvalimento). Il contratto di avvalimento consente all’offerente di beneficiare dei requisiti, senza sopportare alcun peso riguardante l’impresa che ha acquisito quei titoli, se non il pagamento di un corrispettivo. Essendo, quindi, l’ausiliaria a sopportare gli oneri dell’esercizio dell’impresa, a quest’ultima si richiede di dichiarare di essere in possesso dei requisiti di ordine generale.
 
A differenza dell’avvalimento, l’affittuario [del ramo d’azienda] beneficia dei commoda (i requisiti) sopportando gli incommoda, cioè gli obblighi che derivano dall’intervenuto affitto di ramo d’azienda, fra i quali v’è l’obbligo di corrispondere le retribuzioni e di pagare i contributi. Di conseguenza, è l’affittuario – da quando è divenuto efficace il contratto – a dover corrispondere le retribuzioni, i contributi e a presentare il DURC [e quindi, in definitiva, a dover dimostrare, con riferimento al ramo d’azienda affittato, il possesso dei requisiti generali].

Indice

Il caso di specie

La controversia in commento analizza aspetti degni di nota nel contesto della contrattualistica pubblica, riguardanti principalmente tre profili:
a) l’applicazione della disciplina dell’affitto di ramo d’azienda (concepita per i lavori) agli appalti di servizi;
b) il tema della verifica del mantenimento dei requisiti, in caso di fallimento dell’impresa che ha affittato il ramo d’azienda, in capo all’operatore economico (affittuario) partecipante alla gara;
c) la differenza tra affitto di ramo d’azienda e avvalimento, con riferimento a vantaggi/oneri per l’impresa che beneficia dell’affitto, ai fini della procedura per l’aggiudicazione di un contratto pubblico.
Questi i fatti salienti.
La controversia ha riguardato la procedura aperta per l’affidamento del servizio di pulizia, disinfestazione e derattizzazione dei luoghi afferenti ai siti dell’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este, gara da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, ai sensi dell’art. 71 d.lgs. n. 36/2023, per la durata di un anno e con la previsione della possibilità di rinnovo, a discrezione dell’Ente, per ulteriori due anni.
Aggiudicato l’appalto, l’operatore classificatosi al secondo posto ha impugnato la determina di aggiudicazione – con la relativa comunicazione (ex art. 90, comma 1, lett. b e c d.lgs. n. 36/2023) – unitamente ai verbali di gara e a una serie di ulteriori atti afferenti la procedura di affidamento.
Il ricorrente, in particolare, ha dedotto tre motivi con cui ha lamentato una serie di vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, relativi rispettivamente:
i) all’asserita mancanza, in capo all’aggiudicataria, dei requisiti di partecipazione di carattere speciale, avendo comprovato i requisiti di capacità economico-finanziaria previsti dal disciplinare di gara mediante contratto di affitto di azienda, stipulato con una società s.r.l., avente una durata inferiore a quella (di tre anni) prevista dall’art. 16, comma 9 Allegato II.12 d.lgs. n. 36/2023, nonché all’asserita mancanza, in capo a detta s.r.l. “affittante”, dei requisiti di carattere generale, in ragione della sua sottoposizione a procedura di liquidazione giudiziale (con la conseguenza che il concorrente locatario avrebbe dovuto essere escluso in applicazione del principio generale ubi commoda, ibi incommoda), oltre al difetto di istruttoria per omessa verifica dei requisiti di partecipazione in capo ad entrambe le società;
ii) supposta anomalia dell’offerta in ragione della indicazione di un costo della manodopera ritenuto inferiore a quello previsto dalle tabelle ministeriali vigenti;
iii) erronea applicazione di un sub-criterio del disciplinare di gara, per il quale sarebbe stato illegittimamente assegnato all’operatore aggiudicatario un punteggio superiore rispetto a quello ritenuto (dal ricorrente) spettante.
Il TAR Lazio, all’esito, ha rigettato il ricorso.

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato ha respinto il gravame avverso la sentenza, confermando la decisione di primo grado.
Come accennato in apertura di questo commento, sono tre le questioni degne di nota: la prima riguarda l’applicazione della disciplina dell’affitto di ramo d’azienda (concepita per i lavori) agli appalti di servizi.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha chiarito che, in base all’art. 16, comma 9 Allegato II.12 al d.lgs. n. 36/2023 (in cui è disciplinato il “Sistema di qualificazione e requisiti per gli esecutori di lavori”), in caso di affitto d’azienda, l’affittuario può avvalersi dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice se il contratto di affitto ha durata non inferiore a tre anni.
In particolare, ha riportato il Collegio, il requisito può essere integrato a mezzo di affitto d’azienda: “a prescindere dalla perfetta sovrapponibilità temporale tra la durata dell’affitto e quella dell’affidamento” (Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2021, n. 1335), in quanto: “Una volta soddisfatto tale requisito, non è consentito indagare oltre circa l’esatta corrispondenza tra durata dei due rapporti contratti (contratto di affitto e contratto di appalto)” (Cons. Stato, sez. III, 5 giugno 2020, n. 3585).
Per il giudice, la previsione in esame (art. 16, comma 9, cit.) – ritenuta applicabile anche ai servizi – è espressione di un principio generale, che consente all’operatore economico di avvalersi, a determinate condizioni, dell’affitto del ramo d’azienda ai fini dell’attestazione del possesso dei requisiti di qualificazione, così fissando, sia per i lavori che per i servizi e le forniture, il punto di equilibrio fra favor partecipationis e tendenziale stabilità del requisito.
La regola di cui si tratta è concepibile – e quindi valevole – solo se riferita ai requisiti connessi ad affidamenti di durata pari o superiore a 3 anni (termine minimo di durata del contratto di affitto secondo la disposizione in esame). Mentre, ha precisato il giudice, nel caso di un servizio avente durata inferiore, è sufficiente che l’affitto abbia durata “superiore alla durata dell’appalto” (il Collegio riporta la decisione Cons. Stato, sez. V, 17 giugno 2022 n. 4967) o comunque almeno pari a quella dell’affidamento.
L’ipotesi – verificatasi nel caso di specie – di successiva vendita del ramo d’azienda in precedenza locato non muta il regime di fruibilità dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice.
Anzi, secondo il giudice d’appello, l’acquisto rende ancora più stabile il rapporto fra il ramo di azienda e l’operatore locatario (acquirente dello stesso), così assorbendo il profilo della durata del contratto di affitto, funzionale proprio ad assicurare un’idonea solidità a detta relazione (allorquando è funzionale al “prestito” dei requisiti di carattere speciale).
Altra questione riguarda il tema del possesso (o perdurante possesso) dei requisiti generali in capo all’impresa che ha affittato (e poi ceduto) il ramo d’azienda in caso di fallimento (o meglio, di liquidazione giudiziale), circostanza che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, priverebbe questa (l’azienda che affitta e poi cede il ramo d’azienda) dei requisiti ex art. 94, comma 5, lett. d) Codice, con conseguente asserita impossibilità per l’offerente (affittuario e poi acquirente del ramo d’azienda) di potersi avvalere dei requisiti posseduti dall’impresa affittante, anzi, restandone egli stesso travolto in punto di mancato possesso dei requisiti generali e speciali stabiliti per partecipare alla competizione.
Secondo il giudice la tesi non è fondata.
Innanzitutto, il Collegio ha premesso che esiste una tradizionale antinomia fra procedure concorsuali e ad evidenza pubblica: “…risalente all’art. 68 del R.D. n. 267 del 1942, e più di recente disciplinata dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 e successivamente dall’art. 80, comma 5 lett. b) e 110 del d.lgs. n. 50 del 2016 (così come successivamente modificati, anche a seguito del d.lgs. n. 14 del 2019)”, il cui fine è garantire la solidità imprenditoriale del futuro contraente, per evitare che le amministrazioni abbiano come controparte contrattuale un soggetto inaffidabile (il quale non dia garanzia di esatto adempimento con pericolo di compromissione dell’interesse pubblico sotteso all’affidamento).
Tuttavia, ha poi specificato il Consiglio di Stato, nella fattispecie: “…l’operatore economico soggetto alla liquidazione giudiziale non è l’offerente ma un soggetto terzo, collegato all’offerente da un contratto di affitto di ramo d’azienda (funzionale alla spendita dei requisiti posseduti dalla società affittante). In caso di affitto di ramo d’azienda l’art. 184, comma 1 del d.lgs. n. 14 del 2019 dispone che «L’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del concedente non scioglie il contratto di affitto d’azienda, ma il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può recedere entro sessanta giorni […]»”.
Sicché esiste una disposizione specifica che stabilisce come la liquidazione giudiziale, in effetti, non costituisca di per sé causa di scioglimento del contratto di affitto di ramo d’azienda.
Per il Collegio, l’art. 184 del Codice della crisi d’impresa è determinante nel caso di specie, atteso che la relazione esistente fra la società affittante e l’operatore economico (che consente a quest’ultimo di avvalersi dei requisiti di capacità della prima) è il contratto di affitto di ramo d’azienda.
Tale relazione non è ostacolata dall’art. 94, comma 5, lett. d) d.lgs. n. 36/2023 (e dalla regola – stabilita nell’art. 104, comma 4 Codice – secondo cui il soggetto che presta le qualificazioni deve essere in possesso dei requisiti di ordine generale, così come l’operatore che presenta l’offerta).
In particolare, ha precisato il Collegio, ai sensi dell’art. 94, comma 5, lett. d) Codice, è escluso dalla partecipazione alle gare l’operatore economico che sia stato sottoposto a liquidazione giudiziale (o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o nei cui confronti sia in corso un procedimento per l’accesso a una di tali procedure), fermo restando quanto previsto dall’art. 95 d.lgs. n. 14/2019 (Disposizioni speciali per i contratti con le pubbliche amministrazioni, dall’art. 186 bis, comma 5 R.D. n. 267/1942 (Concordato con continuità aziendale) e dall’art. 124 d.lgs. n. 36/2023 (Esecuzione o completamento dei lavori, servizi o forniture nel caso di procedura di insolvenza o di impedimento alla prosecuzione dell’affidamento con l’esecutore designato).
L’esclusione, dunque, non opera se, entro la data dell’aggiudicazione, siano stati adottati i provvedimenti di cui all’art. 186 bis, comma 4 R.D. n. 267/1942 (“Successivamente al deposito della domanda di cui all’articolo 161 [e cioè la domanda di concordato preventivo], la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale, e, dopo il decreto di apertura, dal giudice delegato, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato”) e all’art. 95, commi 3 e 4 d.lgs. n. 14/2019 (e pertanto sia stata formulata – ai sensi dell’art. 40 Codice della crisi d’impresa – una domanda per l’accesso agli strumenti di composizione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale e la partecipazione alla procedura di affidamento sia stata autorizzata dal tribunale, e, dopo il decreto di apertura della procedura, dal giudice delegato, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato), a meno che non intervengano ulteriori circostanze escludenti relative alle procedure concorsuali.
Di conseguenza, nel caso in cui intervenga detta autorizzazione, la causa di esclusione di cui al comma 5, lett. d) art. 94 Codice dei contratti non si perfeziona (essendo comunque la ratio della causa escludente solo quella di evitare che alle gare partecipino soggetti non in grado, in base a un giudizio prognostico qualificato, di garantire la corretta esecuzione del contratto affidando).
Ciò premesso, secondo il Collegio: “Nella stessa prospettiva si inquadra la disciplina dell’affitto del ramo d’azienda da parte del terzo, con la specificità che nel caso di affitto il rapporto prosegue salvo diversa determinazione del curatore, previa valutazione del comitato dei creditori. Ciò in quanto il contratto si caratterizza per il fatto che ha ad oggetto il godimento di un complesso organizzato di beni, che l’avente causa intende organizzare in propria azienda (Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2020, n. 3888 e Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2025, n. 5657)”.
In questo caso, ha osservato il Collegio, l’affittuario, a far tempo dalla data di efficacia dell’affitto, esercita l’impresa rispetto ai beni e alle risorse che fanno parte del ramo d’azienda e ne assume la responsabilità (anche ai fini del possesso dei requisiti). L’affittante assume, invece, la qualifica di creditore del corrispettivo pattuito e cede la responsabilità dell’esercizio dell’azienda in costanza di contratto, fatte salve alcune specifiche posizioni, quali quelle dei lavoratori, che, ai sensi dell’art. 2112 c.c., conservano i diritti pregressi.
La qualificazione dell’affittante di ramo di azienda come creditore: “…non supporta il superamento della disciplina speciale recata dall’art. 184 del d.lgs. n. 14 del 2019 ad opera dell’art. 94, comma 5 del d.lgs. n. 36 del 2023. In tal caso, infatti, non vengono in evidenza i profili di inaffidabilità che connotano la posizione dell’impresa in crisi (e che integrano, come visto, la ratio della causa escludente in esame) dal momento che la posizione della società sottoposta a liquidazione giudiziale (che presta i requisiti) è quella di creditore (fatti salvi gli specifici oneri imposti, che spiegano la facoltà di recedere del contratto, peraltro sottoposta a speciali guarentigie)”.
In altri termini, secondo il giudice d’appello, l’affitto del ramo d’azienda comporta una sorta di “fuoriuscita” dell’impresa locatrice (o meglio, del ramo ceduto) dal perimetro dell’art. 94 Codice, il cui rispetto dovrà essere verificato solo nei confronti dell’affittuario, quindi dell’azienda dell’operatore economico che partecipa alla gara e del ramo d’azienda che costui ha affittato (e poi eventualmente acquistato) dall’impresa locatrice.
Pertanto, ha così concluso il Consiglio di Stato: “…gli elementi addotti dall’appellante non consentono di ritenere violato l’art. 94, comma 5, lett. d) del d.lgs. n. 36 del 2023 (mentre non è oggetto di censura l’art. 184 del d.lgs. n. 36 del 2023, la cui interpretazione necessiterebbe comunque di essere coordinata con le fattispecie rimediali di cui al d.lgs. n. 36 del 2023, considerato che non risulta che il curatore della liquidazione giudiziale abbia esercitato, in merito alla pregressa pattuizione contrattuale oggetto di indagine, alcun recesso)”.
Collegato a quanto appena detto è, infine, il terzo tema su cui si è pronunciato il Collegio.
In particolare, con apposito motivo, parte appellante aveva denunciato l’erroneità della sentenza per non aver verificato l’assenza di cause ostative in capo alla società affittante, con specifico riferimento al DURC e alla corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori.
Anche in questo caso, il giudice ha ritenuto infondati i rilievi.
In primo luogo, secondo il Consiglio di Stato, i requisiti debbono essere verificati avendo come riferimento il tempo della gara. Dunque, se il contratto d’affitto di ramo d’azienda è precedente la pubblicazione del bando, alcuna relazione potrebbe esservi tra impresa affittante il ramo e requisiti stabiliti dal Codice, essendo la ditta locatrice solo un terzo titolare di un diritto di credito (e cioè il diritto al corrispettivo pattuito per la locazione del ramo d’azienda).
Maggiormente pregnante, sul punto, però: “…appare il richiamo al criterio ubi commoda, ibi incommoda, di cui si rinviene traccia nella disciplina del principale istituto volto a consentire il «prestito» dei requisiti, l’avvalimento: l’impresa ausiliaria è infatti «tenuta a dichiarare alla stazione appaltante […] di essere in possesso dei requisiti di ordine generale» (art. 104, comma 4 del d.lgs. n. 36 del 2023)”.
Il contratto di affitto di ramo d’azienda, ha ricordato il giudice, si differenzia dal contratto di avvalimento, nell’ambito del quale le due soggettività rimangono distinte e titolari della rispettiva impresa anche nel corso del rapporto (di avvalimento).
Il contratto di avvalimento consente all’offerente di beneficiare dei requisiti, senza sopportare alcun peso riguardante l’impresa che ha acquisito quei titoli, se non il pagamento di un corrispettivo. Essendo, quindi, l’ausiliaria a sopportare gli oneri dell’esercizio dell’impresa, a quest’ultima si richiede di dichiarare di essere in possesso dei requisiti di ordine generale.
In base all’art. 2558 c.c., diversamente, la società affittuaria subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda (art. 2558 c.c.): “…il contratto di cessione o di affitto d’azienda determina l’automatico trasferimento all’acquirente (o all’affittuario) di tutti i rapporti compresi nel complesso aziendale, sia attivi che passivi” (Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2023, n. 388).
Sicché: “…l’affittuaria beneficia dei commoda (i requisiti) sopportando gli incommoda, cioè gli obblighi che derivano dall’intervenuto affitto di ramo d’azienda, fra i quali l’obbligo di corrispondere le retribuzioni e di pagare i contributi. La possibilità di fruire dei requisiti è quindi strettamente connessa con l’esercizio del ramo d’azienda da parte della società offerente: in altre parole, la ragione che la giustifica è strettamente connessa alla causa di detto contratto, connotata dal trasferimento dell’esercizio dell’impresa in capo all’affittuaria, che ne sopporta gli oneri”.
Segnatamente, per quanto di interesse nel giudizio, il disposto dell’art. 2112 c.c. prevede che, in caso di trasferimento di azienda – ivi compreso, nel senso previsto dal comma 4 di questa norma, l’affitto di azienda – il rapporto di lavoro continui con il cessionario (comma 1), fatta salva la responsabilità solidale di entrambe le società per i “crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento” (comma 2).
L’affitto d’azienda, allora, nel momento in cui si conclude e per tutta la sua durata: “…comporta una successione legale a titolo particolare nel rapporto di lavoro dal lato datoriale (Cass. civ., sez. lav., 23 maggio 2017, n. 12919, Cass. civ., sez. lav., 22 luglio 2002, 10701), dovendosi di conseguenza escludere la persistenza di un rapporto contrattuale anche con il concedente e la possibilità di continuare a includere i lavoratori operanti all’interno dell’azienda trasferita nel novero dei lavoratori subordinati alle dipendenze del medesimo trasferente (Cass. civ., sez. I, 10 febbraio 2022, n. 4342)”.
Sicché è la società affittuaria, nel caso di specie l’operatore aggiudicatario, a dover corrispondere le retribuzioni e i contributi da quando è divenuto efficace il contratto di affitto (infatti, ha ricordato ancora il Collegio, a partire dalla data di perfezionamento del contratto di affitto, i rapporti compresi nel ramo d’azienda sono stati trasferiti all’operatore in gara e, in particolare, i rapporti di lavoro).
La conseguenza – ha concluso il giudice – è che lo stesso: “…è tenuto a presentare il DURC con riferimento ai lavoratori trasferiti nel 2022 (in quanto compresi nel ramo d’azienda oggetto dell’affitto) e quindi già transitati al Consorzio stabile all’epoca della gara”, nonché, aggiungiamo noi, a dimostrare, in relazione al ramo affittato e poi ceduto, il possesso degli altri requisiti generali di cui all’art. 94 Codice (ma lo stesso discorso vale – in linea di principio – anche per il successivo art. 95).
Quindi, riassumendo: a) il contratto di cessione o di affitto d’azienda determina l’automatico trasferimento all’acquirente (o all’affittuario) di tutti i rapporti compresi nel complesso aziendale, sia attivi che passivi, nei quali l’azienda stessa o il suo ramo si sostanzia, come si evince dalla lettura degli artt. 2558-2562 c.c.; b) in base al principio generale ubi commoda, ibi incommoda, il cessionario (o l’affittuario), come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali responsabilità del cedente.
Si segnala, in ogni caso, come, in alcune pronunce, il “cordone ombelicale” rappresentato dal soggetto che affitta il ramo d’azienda (per la cessione il problema non si pone) sia stato considerato rilevante ai fini della valutazione della posizione del concorrente conduttore. Secondo questa tesi, in presenza di un affitto: “…l’influenza dell’impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal codice degli appalti”: Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 2023, n. 3629, riportata da TAR Lazio, Roma, sez. II, 29 aprile 2024, n. 8473).
Conseguentemente, spetterebbe alla società affittuaria l’onere di dimostrare la discontinuità gestionale tra le due società (Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 2023, n. 3629; Id., 14 luglio 2022, n. 5973).
In tale prospettiva: “…la continuità imprenditoriale tra l’affittuario e l’affittante risulta insita in re ipsa nello stesso trasferimento della disponibilità economica di una parte dell’azienda ad altra impresa, giuridicamente qualificabile come affitto, ad eccezione della sola ipotesi in cui il soggetto interessato (cessionario) abbia fornito la prova di una completa cesura tra le gestioni” (Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2023, n. 388; Id., 18 marzo 2022, n. 1973; Id., 5 dicembre 2022, n. 10607; Id., sez. III, 12 dicembre 2018, n. 7022; Id., sez. V, 7 ottobre 2021, n. 6706).
In base a questa interpretazione, dunque, le cause escludenti (e i corrispondenti requisiti generali in rilievo) riguardano entrambi i soggetti: il concorrente come tale, a fronte anche dell’affitto d’azienda di cui lo stesso beneficia (pure a prescindere dalla concreta spendita di requisiti speciali, la quale rileva evidentemente anche in termini meramente potenziali, non già necessariamente concreti e attuali); in via correlata, l’apparato aziendale affittato (comprensivo del personale di manodopera) a disposizione dell’operatore economico affittuario: “…sicché comunque i requisiti soggettivi generali allo stesso ricollegabili devono risultare soddisfatti, a prescindere dalla concreta spendita del requisito speciale per la soddisfazione delle prescrizioni della lex specialis” (TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 8473/2024, cit.).
Le conclusioni di questa tesi, in realtà, sono analoghe a quelle espresse dal Consiglio di Stato nella sentenza in esame.
L’unica vera questione che pone (eventualmente) tale interpretazione più “restrittiva” si riferisce al dovere di dimostrare, da parte dell’appaltatore che beneficia del ramo d’azienda, la “cesura” tra le gestioni.
In effetti, nel momento in cui si perfeziona l’affitto o la cessione del ramo (o dell’azienda), la parte che subentra, ai fini della partecipazione alla gara, deve dimostrare, innanzitutto, il possesso dei requisiti generali anche in relazione all’azienda acquisita. Non deve, però, dimostrare una generale “cesura” con la gestione precedente (indipendentemente da eventuali problematiche rilevanti ai sensi degli artt. 94-95 Codice), aspetto che attiene al “merito” della conduzione d’impresa, profilo che resta in capo all’imprenditore e che costituisce espressione del suo diritto di organizzare l’attività al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi (art. 41 Cost., art. 2082 c.c. e art. 2555 c.c.).

Ancora sulla sentenza del Consiglio di Stato

È necessario, infine, trattare un altro profilo di interesse della sentenza, relativo alla differenza tra costo medio della manodopera, stabilito dalle tabelle ministeriali, e minimi salariali inderogabili previsti dal CCNL di riferimento.
Il Consiglio di Stato ha, innanzitutto, ricordato le fonti “codicistiche” in materia di costi della manodopera, rinvenibili nell’art. 11 d.lgs. n. 36/2023, nell’art. 41, comma 13 e 14 Codice e negli artt. 108, comma 9 e 110, comma 1 e 4.
Se ne ricava, secondo il giudice, un sistema in relazione al quale, tra l’altro, è ammesso il ribasso sui costi dalla manodopera indicati dalla stazione appaltante nella lex specialis di gara (Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2024, n. 9255; Id., 9 giugno 2023, n. 5665). Inoltre: “…per l’operatore economico che applichi il ribasso anche ai costi della manodopera, la conseguenza non è l’esclusione dalla gara, ma l’assoggettamento della sua offerta alla verifica dell’anomalia” (Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2024, n. 9255). Rimane ferma la regola dell’inderogabilità dei minimi salariali, che si distingue dalla disciplina relativa alla determinazione del costo della manodopera sulla base delle tabelle del Ministero del lavoro (“…viene mantenuta la disciplina vigente di cui all’art. 23, comma 16 del d.lgs. n. 50/2016”, così la relazione al d.lgs. n. 36/2023, pag. 61).
Dunque, rispetto ai costi della manodopera, previsti nel bando e determinati considerando le tabelle del Ministero, in ragione dell’art. 41, comma 13 e 14 e degli altri fattori inerenti lo specifico appalto, il concorrente può dimostrare che il ribasso complessivo dell’importo deriva da una più efficiente organizzazione aziendale (art. 41, comma 14). Resto inteso, però, che i minimi salariali sono inderogabili, anche perché non trovano fonte nelle tabelle ministeriali (sono queste ultime a dover tenere conto degli stessi, oltre che di altre circostanze).
Infatti, ha specificato il Collegio: “…le tabelle ministeriali individuano il costo medio orario del lavoro, mentre la previsione di inderogabilità di cui all’art. 97, comma 6 d.lgs. n. 50 del 2016 si riferisce solo al trattamento minimo salariale stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva (Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2025, n. 488)”. Altrimenti, le due regole (possibilità di determinare il costo della manodopera in misura inferiore da quanto previsto nelle tabelle ministeriali e inderogabilità dei minimi salariali) sarebbero fra loro incompatibili.
Pertanto, ha concluso il giudice: “…non può desumersi dal mancato adeguamento del costo del personale esposto nell’offerta alle quantificazioni contenute nelle tabelle ministeriali la violazione dei trattamenti salariali minimi inderogabili”.
Ciò detto, l’impossibilità di fornire giustificazioni (in sede di verifica dell’anomalia), a fronte della violazione del trattamento salariale minimo previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, è oggi stabilita dall’art. 110 Codice, il quale dispone: “4. Non sono ammesse giustificazioni: a) in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge; b) in relazione ai costi di sicurezza di cui alla normativa vigente”.
La disposizione fa riferimento non già a uno scostamento del costo del lavoro dalle tabelle del Ministero del lavoro ex art. 23, comma 16 d.lgs. n. 50/2016, bensì a uno scostamento del costo del lavoro dai trattamenti salariali minimi stabiliti dalla legge oppure dalla contrattazione collettiva nazionale concretamente applicabile al singolo imprenditore (essendo proprio tale contrattazione la “fonte autorizzata dalla legge” cui fa riferimento l’art. 110).
Tale scostamento non tollera alcun tipo di giustificazione da parte del singolo operatore economico, radicando, quindi, non già un potere discrezionale della stazione appaltante di valutare (in contraddittorio con l’impresa) l’eventuale giustificazione dell’anomalia dell’offerta, bensì un potere vincolato di esclusione automatica dalla gara. Esclusione che prescinde, quindi, da una complessiva valutazione discrezionale (da parte dell’amministrazione) dell’impatto dello scostamento del costo del lavoro sulla congruità economica globale dell’offerta e sulla sua sostenibilità finanziaria.
La ratio di tale esclusione automatica risiede, infatti, nella circostanza che il mancato rispetto del minimo retributivo stabilito dalla contrattazione collettiva nazionale vigente non può mai essere giustificato (a prescindere, lo si ripete, dal suo concreto impatto sulla sostenibilità economica dell’offerta), stante il ruolo centrale che detta contrattazione svolge nella definizione dei parametri costituzionali di “sufficienza” e “proporzionalità” della retribuzione del lavoratore subordinato (art. 36 Cost.).
Quanto precede, in piena armonia con il principio generale, oggi scolpito nell’art. 11 Codice, il quale dispone che: “1. Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.
Il rispetto dei trattamenti salariali minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale costituisce, allora, una conditio sine qua non di partecipazione alla gara.

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