Alla Corte costituzionale l’onere motivazionale previsto per l’in house providing

La II Sezione del T.a.r. Liguria ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui prevede l’obbligo di dare conto «delle ragioni del mancato ricorso al mercato» in caso di affidamento in house

21 Novembre 2018
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La II Sezione del T.a.r. Liguria ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, nella parte in cui prevede l’obbligo di dare conto «delle ragioni del mancato ricorso al mercato» in caso di affidamento in house

Più in particolare, il T.a.r. Liguria ha ritenuto che tale norma si ponga in violazione dell’art. 76 della Costituzione, apparendo viziata per eccesso di delega per il mancato rispetto dei principi e criteri direttivi contenuti all’art. 1, comma 1, lett. a) ed eee), legge 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014).

Lineari e difficilmente contestabili appaiono essere le argomentazioni del T.a.r. Liguria sulla sussistenza del requisito della rilevanza, non potendo effettivamente il giudizio essere definito indipendentemente dalla risoluzione della q.l.c. della norma della cui costituzionalità si dubita.

Infatti, sottolineando la valenza derogatoria dell’in house providing rispetto alla regola generale dell’evidenza pubblica, il ricorrente aveva lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, espressamente invocato, non avendo l’amministrazione adeguatamente dato conto della preferenza per il modello in house.

Chiarisce l’ordinanza, infatti, che la norma «costituisce […], alla lue del motivo dedotto, il parametro legislativo alla stregua del quale questo giudice è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato, e della congruità e/o adeguatezza delle stesse».

Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza opera, anzitutto, un’ampia ricostruzione dell’istituto nella normativa eurounitaria, che fissa i principi in materia, poi richiamati dalla citata legge delega n. 11/2016, stabilendo a sua volta i principi e i criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il Governo ai sensi dell’art. 76 della Costituzione.

Tale ricostruzione è strumentale all’affermazione di una supposta violazione del cosiddetto divieto di gold plating, consistente nel divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive (art. 1, lett. a), della legge delega n. 11/2016).

Per la II Sezione del T.a.r., l’introduzione di un onere motivazionale andrebbe oltre quanto richiesto dalle direttive, che non consentirebbero di introdurre oneri ulteriori per il ricorso all’in house, rispetto a quelli espressamente richiesti.

Dall’analisi della normativa europea trasparirebbe, infatti, ad avviso del T.a.r., il principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, che consentirebbe di individuare liberamente il modello organizzativo più confacente alle esigenze dell’amministrazione, tra cui l’in house providing: tale modello, quindi, non costituirebbe più un’ipotesi speciale e derogatoria rispetto all’evidenza pubblica.

Da un alto, infatti, si è tradizionalmente ritenuto che il cosiddetto in house providing consistesse nell’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società dallo stesso controllata, in deroga alle ordinarie procedure di evidenza pubblica (impostazione anche recentemente condivisa dal Consiglio di Stato con il parere n. 2583 dell’8 novembre 2018, commentato su questo sito).

Dall’altro, il T.a.r. Liguria esclude che tale modello costituisca ormai un’ipotesi derogatoria: l’in house providing si porrebbe, invece, sullo stesso piano dell’evidenza pubblica. Ciò almeno quando risultino presenti i tre requisiti oggi positivizzati dall’art. 5 del Codice dei contratti pubblici, che ricalca la formulazione dell’art. 12, Direttiva 2014/24/UE:

  1. «l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
  2. oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi;
  3. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».

Nel giustificare la valenza asseritamente non più derogatoria dell’in house, l’ordinanza richiama l’art. 2, comma 1, Direttiva 2014/23/UE, a mente del quale le «autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici».

L’art. 12, Direttiva 2014/24/UE, inoltre, secondo il T.a.r., «esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatarie a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house».

Ad avviso del T.a.r. Liguria, quindi, la normativa eurounitaria andava interpretata nel senso che, in presenza dei tre requisiti qui richiamati, l’amministrazione avrebbe dovuto essere resa libera di poter scegliere il modello dell’in house providing in luogo dell’evidenza pubblica, senza alcun onere motivazionale aggiuntivo (impostole invece dalla norma della cui costituzionalità si dubita).

Il Collegio ha chiarito, infatti, che, «a seguito della positivizzazione dell’istituto […] può ritenersi definitivamente acquisito il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica».

L’ordinanza, inoltre, evidenzia la possibile violazione del criterio direttivo di cui all’art. 1, lett. eee), della legge delega, in quanto la valutazione della congruità economica delle offerte, attenente alla sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti e – questa sì – espressamente contenuta nella delega, non avrebbe nulla a che vedere con l’introduzione di un più generale obbligo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato.

Ebbene, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal T.a.r. Liguria presenta profili di indubbia complessità.

L’art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, può essere letto, infatti, quale norma posta a presidio dei principi di concorrenza e di economicità dell’azione amministrativa, tuttora privilegiati dal legislatore eurounitario. Basti pensare al considerando (1) della Direttiva 2014/24/UE, che prevede che «gli appalti pubblici siano aperti alla concorrenza».

La motivazione circa il mancato ricorso al mercato di cui all’art. 192, comma 2, del Codice, letta in questo senso, si concentrerebbe essenzialmente sull’aspetto della valutazione della congruità economica, già espressamente richiesta dalla delega alla lett. eee) dell’art. 1.

Pertanto, se gli oneri motivazionali richiesti dalla delega e cristallizzati nel Codice fossero sostanzialmente coincidenti, sia pure con le evidenti differenze terminologiche, il T.a.r. avrebbe dovuto forse sollevare questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea – dubitando della compatibilità euronitaria di una valutazione di congruità economica richiesta già dalla legge delega – e non rivolgersi alla Corte costituzionale lamentando l’eccesso di delega.

E ancora, più in generale, si potrebbe forse tuttora sostenere che l’evidenza pubblica sia la modalità operativa che meglio di ogni altra consente la ricerca sul mercato della soluzione economicamente più vantaggiosa e che, quindi, l’efficacia dell’azione amministrativa troverebbe un vulnus in ipotesi derogatorie troppo ampie e non adeguatamente giustificate.

Si spiegherebbe così l’onere motivazionale richiesto per derogarvi, pur in presenza dei tre requisiti dell’in house providing.

La sussistenza di tali requisiti, infatti, non sarebbe di per sé idonea a garantire all’amministrazione maggiori economicità ed efficienza, giustificando così la deroga, ma anzi rischierebbe di esporre l’azione amministrativa a disfunzioni e a spese maggiori.

D’altra parte, sembra essere vero anche quanto afferma il T.a.r., evidenziando che l’onere motivazionale di cui all’art. 192, comma 2, pare costituire un quid pluris rispetto a quanto previsto dalla Direttiva che, anzi, al considerando (32) e all’art. 12, sembra considerare l’in house una legittima alternativa all’evidenza pubblica in presenza dei necessari requisiti.

Leggendo così la norma, quindi, l’in house costituirebbe ormai una delle ordinarie forme di affidamento di un servizio che le amministrazioni possono legittimamente scegliere, sempre se in presenza dei requisiti indicati.

Più solida appare, dunque, la valutazione della non manifesta infondatezza della questione in relazione alla violazione del divieto di gold plating di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), della legge delega, rispetto all’asserita violazione dell’art. 1, comma 1, lett. eee).

L’importanza della questione è evidente, oltre che per le stesse società in house, anche per gli operatori economici privati, considerato che un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma amplierebbe ulteriormente gli spazi dell’in house providing, modello già privilegiato da molte amministrazioni.

Si attende, quindi, il pronunciamento della Corte costituzionale, che non appare di facile prevedibilità considerata la complessità della questione affrontata.

Testo integrale dell’ordinanza del T.a.r. Liguria, sez. II, 15 novembre 2018, n. 886

Aldo Iannotti della Valle