Criteri Ambientali Minimi “C.A.M.”: sull’immediata impugnazione della legge di gara in caso di violazione dei C.A.M e sui limiti all’eterointegrazione della lex specialis nell’ottica del principio del risultato

A cura di Sandro Mento

Sandro Mento 5 Giugno 2024
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Consiglio di Sstao, sez. III, 27 maggio 2024, N. 4701

Criteri Ambientali Minimi – art. 34 d.lgs. n. 50/2016 – art. 57 d.lgs. n. 36/2023 – lex specialis lesiva dei C.A.M. – eterointegrazione disciplina di gara – impugnazione del bando di gara – principio del risultato – interessi ambientali

In materia di C.A.M, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato n. 2795/2023, che ha applicato alla specifica materia i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria n. 4/20168, non sussiste un onere di immediata impugnazione delle clausole della legge di gara che si assumono lesive per violazione della disciplina sui Criteri Ambientali Minimi. In alcun modo, infatti, tale illegittimità influisce sulla formulazione dell’offerta: non solo in termini di impossibilità assoluta, ma neppure in termini di condizionamento relativo.
 
Il mero richiamo ai C.A.M. da parte della legge di gara non equivale a prospettare la conformità del risultato della gara medesima allo scopo voluto dal parametro normativo. Per potersi predicare la legittimità della legge di gara è necessario riscontrare l’effettiva cura degli interessi ambientali in sede di disciplina degli obblighi negoziali (in ciò consistendo il risultato avuto di mira dai C.A.M.); pertanto, è insufficiente il dato disciplinare meramente formale consistente nel generico richiamo ai criteri in questione.
 
È contraria al principio del risultato una legge di gara che genericamente richiami una disciplina [quella in materia di C.A.M.] non declinata nelle specifiche tecniche, in vista di una successiva integrazione, tale da incrementare il tasso di complicazione e di incertezza del contenuto degli obblighi negoziali.

Indice

Il caso di specie

La sentenza in esame affronta una serie di questioni afferenti il rapporto tra disciplina dei C.A.M. e struttura della legge di gara.
Due, in particolare, sono le questioni analizzate nella decisione (articolate in conseguenza delle censure proposte dall’appellante principale e dagli appellanti incidentali): una attiene alla sussistenza (o meno) dell’onere di immediata impugnazione delle clausole della legge di gara che si assumono lesive della disciplina in materia di C.A.M. (questione affrontata alle pagg. 10-11 della sentenza), l’altra, più articolata dal punto di vista giuridico (pagg. 14-29), sempre con riferimento alla disciplina dei C.A.M., riguarda invece i confini e i limiti – analizzati attraverso il “prisma” del principio del risultato – della tendenza di molte amministrazioni, nella predisposizione delle procedure di gara, a effettuare (meri) rinvii “esterni” ai criteri ambientali minimi, eterointegrando così le singole procedure tramite rimando “passivo” a quanto stabilito nei decreti ministeriali.

La decisione del TAR

La vicenda ha riguardato una gara per l’affidamento di un “multiservizio” tecnologico presso gli immobili di proprietà e in uso alle aziende e istituti sanitari del servizio sanitario regionale della Campania (per la durata di 18 mesi, con opzione di rinnovo di 6 mesi e previsione di proroga di 12 mesi fino all’individuazione del nuovo contraente).
La procedura di evidenza pubblica, per conto di tali soggetti (destinatari dell’esecuzione delle prestazioni presso le sedi istituzionali), veniva formalmente svolta da una società regionale (So.Re.Sa. s.p.a.).
Per quanto di interesse in questa sede, innanzitutto, il TAR Campania (sentenza n. 377/2024) ha rigettato le tesi degli operatori controinteressati (nonché della società regionale), i quali (con ricorsi incidentali) avevano sostenuto, tra l’altro, l’irricevibilità del ricorso principale per tardività delle censure mosse contro il bando, in ragione dell’asserita violazione della disciplina sui criteri ambientali minimi.
In particolare, il Giudice ha evidenziato che: “È noto che l’onere di immediata impugnazione del bando sussiste soltanto in presenza di clausole immediatamente escludenti o limitative della partecipazione; nel caso all’esame, è sufficiente rifarsi alla pronuncia del Consiglio di Stato – sez. III, del 20 marzo 2023, n. 2795 che da ultimo, in identica fattispecie, ha statuito che «…in forza di uno stabile indirizzo giurisprudenziale, che il Collegio condivide, la non conformità della legge di gara agli articoli 34 e 71 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in tema di criteri ambientali minimi (C.A.M.) non è vizio tale da imporre un’immediata e tempestiva impugnazione del bando di gara, non ricadendosi nei casi eccezionali di clausole escludenti o impeditive che, sole, consentono l’immediata impugnazione della lex specialis di gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2021, n. 972) (Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2022, n. 8773; sulla stessa linea, cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 agosto 2022, n. 6934, e 3 febbraio 2021, n. 972), con la conseguenza che «la partecipazione alla gara in un’ipotesi del genere non può considerarsi acquiescenza alle regole di gara, essendo l’impugnazione proponibile solo all’esito della procedura e avverso l’aggiudicazione, senza che ciò possa qualificarsi come un venire contra factum proprium»”.
Invece, sul tema della presunta incoerenza della disciplina di gara con l’obbligo di determinare (nella lex specialis) il contenuto dei C.A.M., il TAR ha respinto la tesi dell’azienda ricorrente.
Più specificamente, il Giudice ha chiarito che: “…nella presente controversia non può dirsi assente una disciplina in ordine ai criteri ambientali minimi applicabili”. Va osservato: “…che essa [la legge di gara] enuclea con sufficiente grado di precisione le prescrizioni dettate ai concorrenti, mediante il puntuale riferimento ai decreti ministeriali sui criteri ambientali minimi”.
Allorquando il bando – secondo il TAR – contenga un puntuale riferimento ai decreti ministeriali (corredando la disposizione sulla sostenibilità ambientale con specifiche prescrizioni, per particolari prestazioni): “…l’onere di diligenza impone al concorrente di adeguare la propria offerta ai criteri ambientali minimi, che la stazione appaltante non ha trascurato, e che l’operatore economico è così messo in grado di conoscere e valutare, per formulare un’offerta consapevole”.
Secondo il Collegio, in simili fattispecie, il meccanismo di eterointegrazione opererebbe con pienezza, corrispondendo allo spirito che informa l’intera normativa sui C.A.M., la quale: “…si proietta sulla diretta cogenza delle relative regole, il cui rigoroso rispetto si impone anche ai concorrenti, tenuti, come la stazione appaltante, alla loro applicazione”.
In tale contesto, allora: “…apparirebbe ultroneo pretendere da parte della stazione appaltante la declinazione dei criteri ambientali minimi contenuti nella relativa normativa di legge, che si sostanzierebbe nell’obbligo meramente formale di riproduzione del suo contenuto, ogni qualvolta non sia dedotto e dimostrato che, con riferimento alla specificità dell’appalto o ad altre circostanze peculiari, una tale esigenza si imporrebbe, per l’impossibilità che il concorrente possa formulare un’offerta adeguata”.
Infine, il Collegio di primo grado ha precisato che la conclusione appena raggiunta apparirebbe concorde anche alla luce del “nuovo” principio del risultato codificato nel d.lgs. n. 36/2023 (art. 1).
Questo: “…può valere come criterio orientativo per i casi, come quello all’esame, in cui debba essere risolto il dubbio sulla sorte della legge di gara, che non può dirsi assolutamente mancante di prescrizioni inderogabili”.
Detto principio (valevole anche per le procedure di appalto non rette dal d.lgs. n. 36/2023) può essere allora declinato in termini che: “…pongano l’accento sull’esigenza di privilegiare l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica, prendendo in considerazione i fattori sostanziali dell’attività amministrativa, escludendo che la stessa sia vanificata, in tutti quei casi in cui non si rinvengano obiettive ragioni che ostino al suo espletamento”.
In tale ottica, in definitiva, secondo il TAR, può affermarsi che nella specie: “…vada mantenuta la legge di gara e garantito lo svolgimento della procedura di appalto, poiché a tale risultato non si frappongono esigenze dettate dalla preminente tutela delle ragioni del concorrente, la cui posizione sia stata ingiustificatamente lesa (atteso che, come si è detto, in ragione della formulazione specifica degli atti di gara, l’operatore economico non potesse dirsi inconsapevole delle modalità attraverso cui formulare la propria offerta). In altri termini, nell’analisi dei casi concreti va considerata l’esigenza di garantire il conseguimento dell’obiettivo dell’azione pubblica (con il riconoscimento del prioritario interesse al pronto raggiungimento delle finalità dell’appalto), essendo destinati a recedere quei formalismi ai quali non corrisponda una concreta ed effettiva esigenza di tutela del privato”.

La decisione del Consiglio di Stato

La sentenza del Consiglio di Stato, su sollecitazione dell’appellante principale (l’azienda ricorrente in primo grado) e delle appellanti incidentali (le ditte controinteressate in primo grado), ha confermato innanzitutto la tesi del TAR circa l’insussistenza di un onere di immediata impugnazione: “…delle clausole [della legge di gara] che si assumono lesive per violazione della disciplina in materia di criteri ambientali minimi”.
Diversamente, sul profilo dell’eterointegrazione del bando attraverso il rinvio esterno alle regole contenute nei decreti ministeriali sui C.A.M., il Collegio non ha condiviso le statuizioni del TAR, concludendo, dopo una dettagliata ricostruzione in diritto, per il rigetto degli appelli incidentali e l’accoglimento dell’appello principale, con conseguente positiva valutazione del ricorso di primo grado e annullamento dei provvedimenti (in primis, il bando di gara) con esso impugnati.
Sul primo tema, il Consiglio di Stato ha evidenziato che: “…la questione, con specifico riferimento ai C.A.M., è stata già affrontata da questa Sezione nella sentenza n. 2795/2023, che ha applicato alla specifica materia dedotta i princìpi sanciti dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4/2018, nel senso dell’insussistenza di un onere di immediata impugnazione delle clausole che si assumo lesive per violazione della disciplina in materia di criteri ambientali minimi”.
Sull’argomento, secondo il Giudice d’appello, non si ravvisano ragioni per addivenire – come sollecitato – ad una rimeditazione di tale orientamento: “…posto che proprio i criteri sanciti dalla ricordata sentenza n. 4/2018 dell’Adunanza Plenaria, correttamente applicati dalla richiamata sentenza alla specifica fattispecie oggetto di giudizio, impediscono di addivenire ad un diverso esito interpretativo. In alcun modo, infatti, l’illegittimità dei criteri ambientali minimi influisce sulla formulazione dell’offerta: non solo in termini di impossibilità assoluta, ma neppure in termini di condizionamento relativo (Cons. Stato, sez. III, 8 febbraio 2024, n. 1300).
Diversa, invece, è stata la ricostruzione del Giudice sulla questione dell’eterointegrazione del bando di gara attraverso la disciplina dei C.A.M.
La tesi del TAR, che aveva ammesso l’ipotesi del “rinvio” (motivando però sull’esistenza, nella fattispecie, di una specifica indicazione nella legge di gara dei C.A.M. interessati e quindi non riconoscendo l’incoerenza con l’obbligo di determinare, nella lex specialis, il contenuto di detti criteri), è stata ritenuta superata dal Collegio, in virtù dei più recenti orientamenti giurisprudenziali.
Ma andiamo per gradi.
Innanzitutto, il Consiglio di Stato ha speso alcune parole sulla natura dei C.A.M.
In particolare, secondo il Giudice, nonostante solo apparenti difformità testuali, l’attuale art. 57, comma 2 d.lgs. n. 36/2023 (rispetto all’art. 34 d.lgs. n. 50/2016 applicabile alla fattispecie) si pone in relazione di continuità con il carattere c.d. mandatory dei criteri ambientali minimi, anche in considerazione del rilievo (non solo meramente esegetico) che tale processo di successione di norme è stato segnato, medio tempore, dalla riforma del parametro costituzionale rappresentato dagli artt. 9 e 41 della Costituzione.
Dall’insieme delle prescrizioni normative in tema di C.A.M., inoltre: “…risulta che la sostenibilità ambientale delle scelte negoziali dell’amministrazione pone un problema di rispetto di canoni normativamente stabiliti, più che di esercizio di discrezionalità propriamente intesa”.
Secondo il Giudice, il mero richiamo ai criteri ambientali da parte della legge di gara: “…non equivale a prospettare la conformità del risultato della gara allo scopo voluto dai parametri normativi” (Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2022, n. 8773), senza che a tali riferimenti: “…abbia fatto seguito un’effettiva declinazione nella documentazione di gara, come prescritto dal citato art. 34, primo comma [d.lgs. n. 50/2016]”.
È proprio la valorizzazione del profilo sostanziale, secondo il Collegio, a deporre nel senso della fondatezza delle contestazioni mosse dall’appellante principale: nella duplice prospettiva della necessità – per potersi predicare la legittimità della legge di gara – di un riscontro di effettività della cura degli interessi ambientali in sede di disciplina degli obblighi negoziali (in ciò consistendo il risultato avuto di mira dalla norma in questione) e della insufficienza del dato disciplinare meramente formale consistente nel generico richiamo ai C.A.M.
La tesi della eterointegrazione, che ha consentito al primo giudice di ritenere legittima la legge di gara, per un verso, contraddice: “…la tesi delle parti appellate circa la completezza della relativa documentazione; per altro verso – stante la genericità sul punto di disciplinare e capitolato, e la conseguente necessità di integrarne ab extrinseco la disciplina – ha l’effetto di spostare nella fase di esecuzione del contratto ogni questione relativa alla conformità della prestazione ai criteri ambientali: così contraddicendo la logica del risultato […], che mira piuttosto ad una sollecita definizione, in termini di certezza e stabilità del rapporto negoziale, dei reciproci diritti ed obblighi (posto che lo stesso art. 1, comma 1 d.lgs. n. 36/2023 – ponendosi in linea di coerenza e continuità con risalenti ed autorevoli indicazioni teoriche – costruisce la nozione di risultato in un’ottica di unitarietà strutturale e funzionale fra aggiudicazione ed esecuzione)”.
Interessante è poi l’opinione del Collegio, in risposta ai rilievi del TAR, circa la coerenza (e la legittimità) dell’eterointegrazione con la recente codificazione dell’appena nominato principio del risultato.
Il TAR, nella sentenza, aveva utilizzato l’argomento declinandolo come: “…esigenza di garantire il conseguimento dell’obiettivo dell’azione pubblica (con il riconoscimento del prioritario interesse al pronto raggiungimento delle finalità dell’appalto), essendo destinati a recedere quei formalismi ai quali non corrisponda una concreta ed effettiva esigenza di tutela del privato”, ritenendo che, poiché “in ragione della formulazione specifica degli atti di gara, l’operatore economico non potesse dirsi inconsapevole delle modalità attraverso cui formulare la propria offerta”.
L’impostazione non è stata condivisa dal Giudice d’appello.
Essa: “…trascura in realtà di considerare che il risultato avuto di mira dalla legge in questo caso non è «l’effettivo e tempestivo» svolgimento del servizio (a qualsiasi condizione), ma lo svolgimento del servizio finalizzato all’attuazione delle politiche ambientali alle quali risultano funzionali i criteri ambientali minimi. La nozione, nel caso di specie, deve appuntarsi sul soddisfacimento dell’interesse pubblico primario portato dalle norme che si assumono violate. Diversamente, si legittimerebbe una divaricazione fra la politica ambientale predicata dalla norma primaria regolante l’esercizio del potere in questione, e quella effettivamente praticata mediante la disciplina dei concreti obblighi negoziali”.
Negli ultimi anni, spiega il Collegio, è mutata la qualificazione funzionale dei contratti pubblici: dalla concezione c.d. unipolare (limitata elle esigenze contabilistiche) si è passati a quella bipolare (che alla prima ha affiancato il perseguimento dell’interesse proconcorrenziale e alla libera circolazione) e, infine, a quella multipolare, mediante la quale si assegna al contratto anche il ruolo di strumento di politiche sociali ed ambientali.
In tal senso, la citazione, contenuta nella sentenza, di un’altra recente decisione (sempre della III sezione), secondo cui, nell’attuale quadro normativo: “…soprattutto per effetto delle direttive di seconda e terza generazione, il contratto di appalto non è, infatti, soltanto un mezzo che consente all’amministrazione di procurarsi beni o di erogare servizi alla collettività, ma – per utilizzare categorie civilistiche – uno «strumento a plurimo impiego» funzionale all’attuazione di politiche pubbliche ulteriori rispetto all’oggetto negoziale immediato: in altre parole, uno strumento – plurifunzionale – di politiche economiche e sociali, con conseguenti ricadute sulla causa del provvedimento di scelta del contraente» (Cons. Stato, sez. III, 29 dicembre 2023, n. 11322; in argomento, da ultimo, e con ampia motivazione, Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2024, n. 807 del 2024, in materia di clausole sociali).
L’area dell’interesse pubblico (primario) è sempre la stessa e attiene alla scelta del migliore offerente. Ma i termini di valutazione (rileva correttamente il Giudice) non sono più solo l’affidabilità e l’economicità, bensì anche la capacità di concorrere a tutelare concretamente gli ulteriori interessi pubblici, nel frattempo normativamente assegnati alla cura della P.A., fatto che ha trasformato il contratto d’appalto (pubblico) da mero strumento di acquisizione di lavori, beni e servizi a strumento di politica economica, sociale ed ambientale.
Così, la nozione di risultato, riporta il Collegio citando sempre la propria giurisprudenza: “…anche alla luce del significato ad essa attribuito dal sopravvenuto d.lgs. n. 36/2023, […] non ha riguardo unicamente alla rapidità e alla economicità, ma anche alla qualità della prestazione»; […]. Se si considera tale, fondamentale quadro, la «migliore offerta» è dunque quella che presenta le migliori condizioni economiche ma solo a parità di requisiti qualitativi richiesti” (Cons. Stato, sez. III, n. 11322/2023, cit.).
In definitiva, non trova giuridico fondamento la tesi per cui la positivizzazione in materia contrattuale del principio del risultato avrebbe sancito il “primato” logico dell’approvvigionamento: “…non foss’altro perché tale principio è strettamente correlato a (e condizionato da) quello della fiducia, e dunque si differenza dalla logica del risultato «statico» di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 per rivolgersi invece alla effettività della tutela degli interessi di natura superindividuale la cui cura è affidata all’amministrazione, fra i quali quello della tutela ambientale assume un ruolo decisamente primario alla luce sia della richiamata Direttiva 2014/24/UE, che del riformato art. 9 della Costituzione”.
Il “risultato”, quale principio generale della contrattualistica pubblica, non è pertanto valore antagonista rispetto al principio di legalità. Al contrario (il Collegio cita sempre la giurisprudenza della sez. III): “…il risultato concorre ad integrare il paradigma normativo del provvedimento e dunque ad «ampliare il perimetro del sindacato giurisdizionale piuttosto che diminuirlo», facendo «transitare nell’area della legittimità, e quindi della giustiziabilità, opzioni e scelte che sinora si pensava attenessero al merito e fossero come tali insindacabili»” (Cons. Stato, sez. III, 26 marzo 2024, n. 2866) (su tali profili, si v. quanto si dirà nell’ultimo paragrafo di questo contributo).

Impugnazione della legge di gara in caso di mancato inserimento dei C.A.M.: la posizione espressa di recente dal TAR Lazio

Vi è da segnalare che, sul tema riguardante l’onere di immediata impugnazione della legge di gara che non contenga riferimenti ai C.A.M. (o meglio, alle specifiche tecniche, alle clausole contrattuali e ai criteri premiali contenuti nei decreti ministeriali), il TAR Lazio-Roma (sez. II ter), recentemente, con le sentenze gemelle nn. 4493, 4494 e 4495 del 6 marzo 2024 (per un commento, I. Picardi, in questa Rivista, articolo pubblicato in 08.04.2024), ha dichiarato inammissibile il ricorso di un operatore economico per mancata impugnazione del bando nel termine di trenta giorni dalla sua pubblicazione.
Segnatamente, in risposta alle osservazioni di parte ricorrente – secondo cui non sarebbe derivata l’illegittimità dell’intera procedura dall’omesso inserimento (nella documentazione progettuale di gara) dei profili “regolatori” attinenti il C.A.M. per il servizio di gestione del verde pubblico e la fornitura di prodotti per la cura del verde (D.M. 10 marzo 2022, n. 63), non contenendo la lex specialis clausole impeditive della formulazione di offerte da parte dei concorrenti – il Giudice ha statuito, diversamente, che, qualora la violazione dei principi che informano le procedure di evidenza pubblica risulti già immediatamente percepibile al momento dell’indizione della gara, posporre l’impugnazione della lex specialis fino al momento dell’aggiudicazione: “…non solo non risulta coerente, ma si pone anche in contrasto con il dovere di leale collaborazione e con i principi di economicità dell’azione amministrativa e di legittimo affidamento, immanenti anche nel procedimento amministrativo che governa le procedure evidenziali”.
Il TAR Lazio è arrivato a questa conclusione valorizzando, in particolare, il tratto immediatamente cogente (obbligatorio) per le stazioni appaltanti dei C.A.M., le cui disposizioni, quindi, entrerebbero necessariamente (e automaticamente) a far parte della disciplina di gara.
Le prescrizioni relative ai criteri ambientali minimi, infatti, lungi dall’essere mere norme programmatiche: “…costituiscono in realtà obblighi immediatamente cogenti per le stazioni appaltanti (Cons. Stato, sez. III, del 2 novembre 2023 n. 9398)”.
Di conseguenza, secondo il Tribunale, andrebbero a integrare le regole della gara: “…finanche in ipotesi di completa omissione, sul punto, della lex specialis (cfr. TAR Veneto – sez. I, 18 marzo 2019 n. 329: «si deve ritenere che l’obbligo di rispettare i criteri minimi ambientali derivi direttamente dalla previsione contenuta all’art. 34 del d.lgs. n. 50/2016, che costituisce norma imperativa e cogente e che opera, pertanto, indipendentemente da una sua espressa previsione negli atti di gara […]. Difatti, nel caso di specie è ravvisabile una mera lacuna nella legge di gara, dal momento che la Stazione appaltante ha omesso di inserire la regola sul rispetto dei C.A.M., prevista come obbligatoria dall’ordinamento giuridico. E tale lacuna può quindi essere colmata, in via suppletiva, attraverso il meccanismo di integrazione automatica, in base alla normativa vigente in materia (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4903)»”.
Il Giudice di primo grado ha, poi, collegato tali principi alla specifica posizione del ricorrente.
In particolare, il TAR, ben consapevole del fatto che la giurisprudenza, riguardo l’omissione del riferimento ai decreti sui criteri minimi ambientali, ha affermato che la non conformità della legge di gara agli artt. 34 e 71 d.lgs. n. 50/2016 non è vizio tale da imporre un’immediata e tempestiva impugnazione del bando di gara (non ricadendosi nei casi eccezionali di clausole escludenti o impeditive che, sole, consentono l’immediata impugnazione della lex specialis), ha, non di meno, riconosciuto che l’operatore partecipante alla competizione: “…ha atteso di verificare di non essersi collocato in posizione utile all’aggiudicazione, e soltanto dopo di ciò ha ritenuto di impugnare la lex specialis, senza però [si noti] nulla eccepire circa la violazione delle invocate prescrizioni ministeriali da parte dei controinteressati; bensì, come detto, asserendo in generale l’illegittimità della legge di gara per la violazione asserita di questi ultimi”.
Il Consorzio, in particolare, non avrebbe indicato specifiche violazioni dei C.A.M. (operate dai concorrenti in sede di offerta), bensì si sarebbe, in via del tutto generale e senza precisare altro, doluto del fatto che le prescrizioni dei due decreti ministeriali e relativi allegati non fossero in alcun modo contemplati nella lex specialis (in ciò, però, ritenendo un vizio di legittimità della procedura).
A fronte di censure così congegnate, ha concluso il TAR: “…non mette conto indagare se i c.d. C.A.M. siano, o non, suscettibili di eterointegrare la lex specialis nella gara (il che attiene, invece, al merito del ricorso), in quanto la questione della immediata impugnabilità (o non) del bando attiene alla preliminare questione della tempestività del gravame”.
Insomma, secondo il TAR, indipendentemente dal tema dell’eterointegrazione, qualora l’impresa contesti la carenza tout court di ogni riferimento ai criteri ambientali minimi (rilievo, in tal senso, evidente ictu oculi dalla semplice lettura del bando e degli altri documenti di gara) – in ciò facendo valere la presunta non conformità della lex specialis – allora, è onerato dell’impugnazione immediata della disciplina stabilita dalla P.A., diversamente incorrendo in una ipotesi di irricevibilità del gravame per tardività. 

Alcune considerazioni generali sulla disciplina dei C.A.M.

Come noto, i criteri ambientali minimi, nelle varie fasi in cui si esplica una procedura di gara (e la successiva esecuzione del contratto), dettano le specifiche tecniche, i criteri premiali, le clausole contrattuali, ecc. volti a individuare la soluzione progettuale, il prodotto o il servizio migliore dal punto di vista ambientale.
I C.A.M., in sintesi, rispondono all’esigenza di garantire che la politica nazionale in materia di appalti pubblici sia (più) incisiva non solo riguardo l’obiettivo di ridurre l’impatto sull’ambiente, ma nel promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, “circolari” e nel diffondere l’occupazione “verde” (oggi, peraltro, la tendenza della disciplina in materia, soprattutto in ambito comunitario, è verso il “cosa comprare” invece che sul “come comprare”: su tali profili, si v. A. Iurascu, L’inefficacia del contratto pubblico concluso in violazione dei criteri ambientali minimi (CAM), in Giur. it., 2023, pag. 399 ss.).
Sebbene i C.A.M. siano stati da tempo positivizzati (da ultimo, nel Codice del 2023, si v. art. 57; si cfr. pure art. 105 e Allegato II.8), risultano ancora diversi fattori che ne ostacolano l’uso e l’efficacia ai fini dell’economia circolare, difficoltà solo in parte di natura legislativa.
Le più rilevanti sono: la non sufficiente sensibilizzazione di molti funzionari pubblici in merito all’uso di tali strumenti (soprattutto in sede di progettazione delle gare: si pensi, ad esempio, all’applicazione dei metodi per la valutazione dei costi del ciclo di vita o alla trasformazione dei criteri dei C.A.M. in concreti elementi di valutazione delle offerte); la limitata capacità di verifica, in sede esecutiva, del rispetto delle clausole contrattuali “ambientali” lungo tutta la filiera dell’appaltatore; la circostanza che i bandi che fanno ricorso ai C.A.M. (e ai costi del ciclo di vita) sono percepiti, a volte, come potenziale ostacolo alla concorrenza, in grado cioè di limitare la partecipazione delle piccole e medie imprese alle procedure di affidamento (i costi e i dati che le imprese sono chiamate a fornire, in attuazione di tali criteri, potrebbero, in effetti, favorire quelle più grandi a scapito dei piccoli operatori).
Per quanto riguarda la codificazione del 2023, si segnala come il carattere programmatico di molte norme del d.lgs. n. 36 (l’art. 57 ne è un esempio chiaro), l’assenza di ogni riferimento al principio di sostenibilità, la “valorizzazione economica” delle procedure “conformi” ai criteri ambientali minimi e – per gli appalti riferiti alle ristrutturazioni – la loro presa in considerazione “per quanto possibile”, sembrano aver depotenziato il “peso” dei C.A.M., mentre, per quanto attiene al costo del ciclo di vita (art. 105 Codice), la mancata indicazione (nell’Allegato II.8) di criteri per la valutazione del “riuso” dei prodotti impiegati nell’appalto è destinata, forse, a mal coordinarsi con le finalità dell’economia circolare (e cioè tentare di superare i tratti di tradizionale “linearità” dei processi produttivi, volti essenzialmente al prelievo di risorse e al loro successivo disfacimento – una volta concluso il ciclo produttivo e il consumo – attraverso la generazione di rifiuti o scarti di lavorazione, per tentare di arrivare a sistemi che si autoalimentano in modo tendenzialmente perpetuo, limitando il più possibile – proprio perché fondati anche sul riuso – alcune esternalità tipiche di ogni processo produttivo: inquinamento e utilizzo non efficiente di risorse ambientali e materie prime).
Ciò non di meno, i criteri ambientali minimi costituiscono comunque la “plastica” rappresentazione di quella finalità “multipolare” che oggi dovrebbe ispirare la costruzione di una procedura di affidamento di un appalto o di una concessione, in cui la tutela dell’ambiente non è più solo momento tangente, ma obiettivo concreto che va programmato e progettato (dalla S.A.), sviluppato nel contesto dell’offerta presentata dall’impresa che partecipa all’affidamento, e, infine, monitorato (e misurato) in fase di esecuzione del contratto, con le conseguenze stabilite nelle clausole intervenute tra committente e appaltatore in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi.
Sul contratto, si aggiunge che proprio la violazione dei C.A.M. costituisce causa di inefficacia dello stesso, effetto legato al travolgimento della gara.
Come ha stabilito il Consiglio di Stato (sez. III, n. 8773/2022, cit.): “…in conseguenza dell’annullamento degli atti del procedimento di gara, per violazione di una disposizione posta a presidio di interessi superindividuali [e cioè i C.A.M.], deve essere accolta, ai sensi dell’art. 122 cod. proc. amm., anche la domanda volta alla declaratoria di inefficacia di tale contratto, con conseguente obbligo di rinnovare la gara […], previa emenda del vizio”.
Dunque, il “tema” ambientale rientra nella ponderazione di interessi che il Giudice amministrativo è tenuto a compiere per valutare se mantenere in vita il contratto. In questo caso, si noti, è il Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) che fornisce lo strumento (flessibile e che presenta i tratti tipici della giurisdizione di merito) attraverso cui portare voce alle esigenze della transizione ecologica, anche in un’ottica di “rettifica” dell’operato della P.A. (sempre, però, nel rispetto dei presupposti previsti ex lege).
È un profilo importante questo, soprattutto se si considera che, in futuro, il giudice amministrativo sarà sempre più spesso chiamato a sindacare “ponderando” tra principi generali di settore (risultato, fiducia, accesso al mercato, ecc.) e valori “universali” (come la tutela dell’ambiente), in ciò compiendo un’attività valutativa in grado di fuoriuscire dal perimetro esclusivo della legittimità per approdare a forme più evolute di giurisdizione “correttiva”, destinata (probabilmente) a incidere sempre di più e con maggiore efficacia negli spazi – tuttora – riservati alla decisione della pubblica amministrazione.

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