L’autorità prefettizia, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, può dare rilievo a rapporti di parentela o contatti che, considerati nella loro globalità, inducono a ritenere che l’impresa possa essere condizionata dalla criminalità organizzata
Con la sentenza del 14 febbraio 2018, n. 1017, sez. I, il Tar Campania torna diffusamente sui presupposti di applicazione e sulla natura dell’informazione interdittiva antimafia, richiamando alcuni noti principi che appare utile anche qui ricordare.
Il quadro indiziario necessario e sufficiente per l’interdittiva
Nella controversia all’esame del Tar partenopeo, l’impresa ricorrente aveva impugnato l’interdittiva antimafia adottata dalla Prefettura di Napoli per carenza dei necessari presupposti. I meri rapporti di parentela e i contatti fra il socio amministratore unico e affiliati alla mafia non erano, infatti, di per sé indicativi del pericolo di un condizionamento mafioso.
E, invece, ad avviso dei giudici amministrativi tali circostanze convergevano in termini gravi, precisi e concordanti nel formare un quadro indiziario sufficiente, in base alla regola del “più probabile che non”, ad ingenerare un ragionevole convincimento di un’influenza della criminalità organizzata sull’attività d’impresa.
Al riguardo, la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma solo una serie di indizi da cui desumere un collegamento con organizzazioni di stampo mafioso.
Ai fini della sua adozione non occorre, quindi, provare l’intervenuta infiltrazione della mafia, ma solo la sussistenza di elementi sintomatici del pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata, da considerarsi in modo unitario e non atomistico.
Gli effetti dell’interdittiva antimafia sul procedimento di iscrizione nella “white list”
In un’altra parte della sentenza, il Tar Campania si è pronunciato anche sulla rilevanza dell’informativa antimafia ai fini dell’iscrizione dell’impresa appaltatrice nella “white list” della prefettura.
In particolare, la ricorrente aveva lamentato la violazione ad opera dell’amministrazione dell’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di iscrizione nel citato elenco, espressamente prevista dall’art. 3, comma 3 del d.p.c.m. 18 aprile 2013.
Sul punto, i giudici partenopei hanno ricordato che sebbene l’art. 3 citato imponga al primo comma la comunicazione del diniego di iscrizione nel rispetto dell’art. 10 bis della L. 241/1990, l’art. 2 del Codice Antimafia subordina l’iscrizione nella “white list” all’assenza di tentativi di infiltrazione mafiosa di cui al successivo art. 84, comma 3.
Ne consegue che in presenza di un’informativa antimafia il rigetto dell’istanza di iscrizione è prescritto dalla legge, senza residui margini di discrezionalità in favore dell’amministrazione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento