Limiti quantitativi al subappalto: l’ultimo capitolo della saga investe gli appalti nel settore dei beni culturali

Mentre gli addetti ai lavori chiedono la rimozione del limite quantitativo al subappalto, il T.a.r. Molise ne invoca l’applicazione nel settore dei beni culturali. E solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 105 e 146 del d.lgs. n. 50/2016

25 Novembre 2020
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Mentre gli addetti ai lavori chiedono la rimozione del limite quantitativo al subappalto, il T.a.r. Molise ne invoca l’applicazione nel settore dei beni culturali. E solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 105 e 146 del d.lgs. n. 50/2016

T.a.r. Molise, sez. I, ordinanza 17 ottobre 2020, n. 278

1. Premessa

Con l’ordinanza in commento, il T.a.r. per il Molise ha sollevato «questione di legittimità costituzionale degli articoli 105 e 146 del codice dei contratti pubblici, nella parte in cui non prevedono un divieto di subappalto nel settore dei beni culturali, rispetto alle norme parametro di cui agli articoli 3 e 9 Cost.».

Si torna, dunque, a discutere in giurisprudenza di un tema ormai frequente, quello dei limiti quantitativi al subappalto, questa volta con specifico riferimento al settore dei beni culturali.

L’analisi della questione involge due discipline particolarmente complesse: da un lato, quella del subappalto che stenta a trovare – come dimostrano anche dalle recenti segnalazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dell’Autorità anticorruzione e dell’Associazione nazionale costruttori edili – una sistematizzazione definitiva sia all’interno del codice, che a livello interpretativo; dall’altro, quella degli appalti concernenti i beni culturali, connotata da un elevato tasso di specialità rispetto a quella dettata per la generalità dei lavori pubblici, che si giustifica in ragione della centralità del fine primario di tutela e conservazione dei beni perseguito dalle norme (sul tema, cfr. G. Manfredi, Appalti nel settore dei beni culturali, in M. Clarich, Commentario al codice dei contratti pubblici, Torino, 2019, 929 – 943; A. Iannotti della Valle, Artt. 145, 146 e 147, d.lgs. n. 50/2016, in AA.VV., Codice dei beni culturali ragionato, Molfetta, 2018, 794 ss.; G. Sciullo, Tutela, in AA.VV. Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, 182-183).

Proprio tale specialità dovrebbe consentire, ad avviso dei giudici del T.a.r. per il Molise, l’applicazione in tale settore di un regime giuridico peculiare, anche con riferimento all’istituto del subappalto. Ma, come si avrà modo di rilevare nel prosieguo, tali conclusioni sembrano presentare taluni profili di criticità.

2. La controversia

La vicenda oggetto della pronuncia in commento traeva origine da una procedura di gara indetta da Invitalia, in qualità di centrale unica di committenza per il Mibact, per l’affidamento dei lavori di adeguamento degli impianti di videosorveglianza, antiintrusione e controllo degli accessi di taluni istituti afferenti al Polo museale del Molise.

All’esito della gara, l’impresa collocata al terzo posto della graduatoria impugnava gli atti della procedura nella parte in cui avevano consentito l’ammissione delle imprese controinteressate, lamentandone l’illegittimità sotto molteplici profili, ivi compreso quello relativo al ricorso al subappalto – nella specie, «necessario» o «qualificante» – sul presupposto che lo stesso fosse da ritenersi non utilizzabile nel settore dei beni culturali. Sul punto, il ragionamento dell’impresa ricorrente si sviluppava lungo tre direttrici: in primo luogo, la qualificazione SOA OG2 (cioè quella relativa al restauro e manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela), per la quale le controinteressate erano ricorse ad un soggetto terzo per il 100 per cento delle lavorazioni richieste, non sarebbe stata in realtà suscettibile di subappalto, in ragione del divieto di cui all’art. 146, d.lgs. n. 50/2016, applicabile anche all’istituto da ultimo richiamato seppur riferito espressamente al solo avvalimento; in secondo luogo, le opere di cui alla categoria SOA OG2 sarebbero assimilabili, per disciplina, alle lavorazioni «super specialistiche», per le quali l’art. 105, d.lgs. n. 50/2016 prevede che nell’ipotesi in cui superino il 10 per cento del valore dell’appalto – e nel caso di specie erano superiori al 22 per cento – il subappalto risulta ammissibile solo nei limiti del 30 per cento, e non del 100 per cento, come verificatosi nella fattispecie all’esame del T.a.r. Molise; in terzo luogo, la categoria OG2, essendo a qualificazione «obbligatoria», sarebbe dovuta essere posseduta dal concorrente in proprio.

Con specifico riferimento a tale motivo di ricorso, il ricorrente prospettava inoltre vizi di incostituzionalità della disciplina relativa al subappalto, ove interpretata nel senso dell’ammissibilità di quest’ultimo nell’ambito di lavorazioni rientranti nel settore dei beni culturali, per le quali l’art. 146, d.lgs. n. 50/2016 esclude invece l’avvalimento.

In sede di giudizio, il Collegio ha preliminarmente valutato le censure mosse dal ricorrente, concludendo per la legittimità dell’operato delle imprese controinteressate e della stazione appaltante: nella specifica materia dei beni culturali, il codice vieta infatti solo il ricorso all’avvalimento, senza nulla specificare in ordine al subappalto, né può ritenersi applicabile in via analogica la limitazione del 30 per cento prevista per le sole lavorazioni «super specialistiche», e non estendibile a categorie di lavori ad esse estranee, come quelle in rilievo nel caso di specie; con specifico riferimento, poi, alla categoria a qualificazione «obbligatoria», la stessa impone solamente che le relative lavorazioni siano eseguite da soggetti in possesso di tale qualificazione, come risultava del resto il subappaltatore nel caso di specie.

Posta, quindi, la conformità alla normativa vigente dell’utilizzo del subappalto – anche nella misura del 100 per cento – nella materia dei beni culturali, l’attenzione dei giudici amministrativi si è incentrata sui possibili profili di illegittimità costituzionale – per violazione delle norme parametro di cui agli artt. 3 e 9 Cost. – degli artt. 105 e 146 del codice appalti, nella parte in cui prevedono un trattamento differenziato fra avvalimento e subappalto nel settore dei beni culturali.

3. Sulla questione di legittimità costituzionale: la disciplina esistente

Si è visto, infatti, che il codice dei contratti pubblici, con riferimento alle lavorazioni relative ai beni in esame, sancisce il divieto di avvalimento (art. 146, comma 3), senza nulla disporre in ordine al subappalto.

Come anticipato in premessa, la ragione della suesposta previsione è ricondotta all’esigenza di assicurare che l’esecuzione dei lavori venga effettuata da soggetti muniti di specifici requisiti di qualificazione e competenze specialistiche, in ragione della particolare protezione che l’art. 9 Cost. riserva ai beni culturali. Invero, già in sede di delega al Governo per l’emanazione del nuovo codice, il legislatore aveva fissato quale criterio direttivo il «riordino e semplificazione della normativa specifica in materia di contratti relativi a beni culturali, ivi inclusi quelli di sponsorizzazione, anche tenendo conto della particolare natura di quei beni e delle peculiarità delle tipologie degli interventi, prevedendo altresì modalità innovative per le procedure di appalto relative a lavori, servizi e forniture e di concessione di servizi, comunque nel rispetto delle disposizioni di tutela previste dal codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e garantendo la trasparenza e la pubblicità degli atti» (cfr. l. n. 11/2016). In attuazione di tali indicazioni, gli appalti che rientrano nel settore dei beni culturali hanno trovato specifica regolamentazione nella Parte II, Titolo VI, Capo III del nuovo codice (artt. 145 e ss.), nonché all’interno del Regolamento emanato con d.m. 22 agosto 2017, n. 154, che stabilisce i requisiti di qualificazione che le imprese devono possedere per partecipare alle procedure di affidamento.

Siffatta regolamentazione, teleologicamente orientata verso le finalità di tutela e valorizzazione dei beni in esame, poggia sulla volontà di preservare e di ridurre al minimo i rischi di perdita o deterioramento degli stessi, assicurando che gli interventi richiesti siano eseguiti soltanto da soggetti aventi specifiche competenze ed esperienza nella materia.

In proposito, l’art. 146 del d.lgs. n. 50/2016, precisa al primo comma, che «per i lavori di cui al presente capo è richiesto il possesso di requisiti di qualificazione specifici e adeguati ad assicurare la tutela del bene oggetto di intervento» e correlativamente, al successivo terzo comma, che «per i contratti di cui al presente capo, considerata la specificità del settore ai sensi dell’articolo 36 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, non trova applicazione l’istituto dell’avvalimento, di cui all’articolo 89 del presente codice». Dunque, proprio l’esigenza di garantire un’adeguata tutela dei beni culturali ha indotto il legislatore a sancire un assoluto divieto di avvalimento, ponendo così una deroga rispetto all’applicazione generalizzata dell’istituto richiesta dai principi comunitari.

Per converso, stando al tenore letterale delle disposizioni richiamate, si deve escludere l’esistenza di analogo divieto con riferimento al subappalto.

Per valutare se tale diverso trattamento riservato ai due istituti debba considerarsi irragionevole sotto il profilo della tutela dei beni culturali, il Collegio si sofferma quindi sulle loro funzioni, analogie e differenze, per poi concentrarsi sul c.d. subappalto qualificatorio o necessario, che è quello che viene in rilievo nel caso di specie.

Stando al contenuto degli artt. 105 e 89 del codice, entrambi gli istituti rispondono alla medesima logica proconcorrenziale e favoriscono la partecipazione alle gare d’appalto delle imprese, soprattutto quelle di medie e piccole dimensioni, consentendo loro di ottenere determinati requisiti di partecipazione (avvalimento) o di far svolgere ad una diversa impresa una quota delle prestazioni oggetto del contratto pubblico (subappalto).

Al di là di tali similarità, gli istituti in esame presentano divergenze di rilievo. A livello operativo si differenziano, anzitutto, per il momento in cui vengono utilizzati:

  • l’avvalimento si colloca nella fase della gara, perché permette ad un’impresa di ottenere requisiti per partecipare ad una procedura di affidamento;
  • il subappalto, invece, si colloca nella fase esecutiva, cioè quando un’impresa, dopo aver vinto la gara, decide di far svolgere ad altra impresa parte delle prestazioni dedotte in contratto.

In secondo luogo, differiscono per la responsabilità che assume l’impresa coinvolta nei confronti del committente pubblico rispetto alla corretta esecuzione dell’appalto:

  • nell’avvalimento, l’ausiliaria, cioè l’impresa che presta i requisiti, è solidalmente responsabile con l’impresa che ha ricevuto il requisito;
  • nel subappalto, il subappaltatore è un soggetto terzo rispetto alla stazione appaltante, avendo quest’ultima rapporti solo con l’affidatario del contratto pubblico, il quale è dunque responsabile in via esclusiva dell’esecuzione dell’appalto.

Tali differenze si assottigliano notevolmente nella particolare ipotesi del «subappalto necessario» (che è quello che viene in rilievo nel caso di specie). Quest’ultimo ricorre ove l’appaltatore difetti dei requisiti, ivi compresi quelli di qualificazione, necessari per la realizzazione della prestazione, sicché subappalta parte dei lavori ad altra impresa che ne risulti invece in possesso. In altre parole, l’operatore economico che non potrebbe di per sé concorrere in quella data procedura, in quanto carente dei prescritti requisiti, viene ammesso a parteciparvi avvalendosi dello strumento del subappalto. Si tratta di una figura eccentrica rispetto al tradizionale schema del subappalto, perché viene ad operare non solo nella fase esecutiva, ma sin dalla fase iniziale di ammissione alla procedura e qualificazione del concorrente, al punto che, in assenza di una specifica disposizione normativa che lo disciplini, da alcuni si dubita della sua stessa percorribilità.

4. Profili di irragionevolezza

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, i giudici amministrativi ne hanno evidenziato i profili di irragionevolezza nella parte in cui applica un trattamento differenziato agli istituti sopra richiamati, non limitando il ricorso al subappalto nella specifica materia dei beni culturali, pur a fronte di un espresso divieto di avvalimento nel medesimo settore.

Per giustificare l’esigenza di una disciplina omogenea, il Collegio valorizza il ruolo decisivo di «copartecipe» e «corresponsabile» assunto dall’impresa ausiliaria nella fase esecutiva della procedura – non demandata, quindi, in via esclusiva all’ausiliato, privo di esperienza nel settore – e analogo in tal senso a quello dell’impresa subappaltatrice. Ciò sarebbe desumibile da talune disposizioni contenute nell’art. 89 del codice dei contratti pubblici, ove si stabilisce espressamente che «il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto» (art. 89, comma 6); che «l’impresa ausiliaria può assumere il ruolo di subappaltatore nei limiti dei requisiti prestati» (art. 89, comma 8); e, ancora, che «in relazione a ciascun affidamento la stazione appaltante esegue in corso d’esecuzione le verifiche sostanziali circa l’effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto dell’avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria, nonché l’effettivo impiego delle risorse medesime nell’esecuzione dell’appalto. A tal fine il responsabile unico del procedimento accerta in corso d’opera che le prestazioni oggetto di contratto sono svolte direttamente dalle risorse umane e strumentali dell’impresa ausiliaria che il titolare del contratto utilizza in adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento, pena la risoluzione del contratto di appalto» (art. 89, comma 9).

In aggiunta a tali argomenti, legati ad un’interpretazione letterale dell’art. 89, il Collegio ne richiama, poi, altri di carattere sistematico e giurisprudenziale.

In primo luogo, le minori garanzie che assisterebbero, già a livello normativo, il subappalto rispetto all’avvalimento: mentre in quest’ultimo si presuppone, infatti, una responsabilità solidale tra il concorrente e l’impresa ausiliaria nei confronti della stazione appaltante (art. 89, comma 5, d.lgs. n. 50/2016) e l’individuazione del soggetto di cui l’operatore economico intende avvalersi è nota ab origine all’amministrazione, in caso di subappalto la responsabilità esclusiva della corretta esecuzione dei lavori è del concorrente e il subappaltatore è un soggetto che non è nemmeno noto alla stazione appaltante in fase di gara.

In secondo luogo, i giudici del T.a.r. Molise fanno riferimento agli orientamenti garantistici formatisi nella giurisprudenza amministrativa con riguardo all’operatività dell’avvalimento, che richiedono ai fini del valido utilizzo dell’istituto che l’ausiliata provi la relazione giuridica sussistente con l’ausiliaria mediante uno specifico contratto, avente oggetto determinato, e recante in modo chiaro e specifico la volontà dell’impresa ausiliaria, la natura dell’impegno assunto, nonché l’effettiva disponibilità di a disposizione dell’impresa concorrente i requisiti richiesti.

In terzo luogo, vi sarebbe lo sfavore con cui la giurisprudenza amministrativa guarda al subappalto, e in base alla quale «il subappalto, confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sottratto ai controlli amministrativi aventi sede nella procedura di gara: (i) si presta ad una possibile sostanziale elusione dei principi di aggiudicazione mediante gara e di incedibilità del contratto; (ii) costituisce un mezzo di possibile infiltrazione negli pubblici appalti della criminalità organizzata, la quale può sfruttare a suo vantaggio l’assenza di verifiche preliminari sull’identità dei subappaltatori proposti e sui requisiti di qualificazione generale e speciale di cui agli artt. 80 e 83 del d.lgs. n. 50 del 2016; (iii) conosce una prassi applicativa talora problematica, poiché la tendenza dell’appaltatore a ricavare il suo maggior lucro sulla parte del contratto affidata al subappaltatore (tendenzialmente estranea ad ingerenze della stazione appaltante) produce riflessi negativi sulla corretta esecuzione dell’appalto, sulla qualità delle prestazioni rese e sul rispetto della normativa imperativa in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro» (Cfr. Cons. St., Sez. III, ord. 10349 del 10.06.2020).

I profili di irragionevolezza sopra segnalati appaiono ancora più evidenti nell’ipotesi, che viene in rilievo nel caso di specie, di c.d. subappalto qualificatorio, il quale, per un verso, presenta forti analogie con l’avvalimento, e per l’altro, palesa criticità ancora maggiori rispetto al subappalto codicistico. Sul punto, si è giunti addirittura ad osservare che «il subappalto dell’intera prestazione o quasi, specie se necessario al fine di ottenere la qualificazione in gara (c.d. “subappalto necessario”), snaturerebbe il senso dell’affidamento al contraente principale, dovendosi in tal caso favorire – a fronte di un massiccio coinvolgimento di soggetti terzi – la partecipazione diretta alla gara da parte di tali soggetti, con assunzione della responsabilità solidale verso la stazione appaltante, analogamente a quanto avviene in altri istituti (ad esempio, nei raggruppamenti temporanei di impresa e nei consorzi ordinari, cfr. art. 48, comma 5, del Codice), atteso che il subappaltatore non ha alcun obbligo nei confronti della stazione appaltante» (Cfr. atto di segnalazione ANAC n. 8 del 13 novembre 2019).

Pertanto, riassumendo, la mancata previsione di un divieto al subappalto nella specifica materia dei beni culturali – e con particolare riferimento all’ipotesi di «subappalto necessario» – apparirebbe irragionevole alla luce della diversa disciplina prevista per l’avvalimento, in ciò manifestando profili di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 9 Cost.; né la legittimità della disciplina censurata potrebbe recuperarsi attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata, che estenda le regole previste dall’art. 146, comma 3, d.lgs. n. 50/2016 anche all’istituto del subappalto, risolvendosi tale operazione in un’interpretazione analogica di una norma eccezionale – vietata dai principi generali sull’interpretazione delle leggi – che introduce una deroga al ricorso generalizzato all’avvalimento nella materia degli appalti pubblici.

5. Considerazioni conclusive

Nella parte conclusiva della sentenza, i giudici del T.a.r. Molise inseriscono la questione di legittimità costituzionale sopra delineata all’interno del dibattito interpretativo che sta da tempo accompagnando l’istituto del subappalto. Richiamando le sentenze della Corte di Giustizia dello scorso autunno (causa C-63/18 del 26 settembre 2019, con commento su questo sito di  I. Picardi, Dalla Corte di Giustizia stop a restrizioni che limitano “in modo generale e astratto” il ricorso al subappalto, e causa C- n. 402/18 del 27 novembre 2019, con commento di I. Picardi, Nuovo vaglio della Corte di Giustizia sul subappalto: fuori gioco anche la disposizione che limita la possibilità di ribassare i prezzi), i giudici nazionali escludono che una limitazione quantitativa al subappalto nella materia dei beni culturali possa far emergere profili di incompatibilità con il favor partecipationis, in quanto tali pronunce «pur affermando che i principi europei impongono limiti al legislatore nazionale nel porre restrizioni all’utilizzo del subappalto, hanno fondato il proprio decisum sulla circostanza che la normativa impugnata in quei giudizi vietasse in modo generalizzato e astratto il ricorso al subappalto senza aver riguardo “al settore economico interessato”, alla “natura dei lavori” o alla “identità dei subappaltatori”»

Ciò che è stato ritenuto non conforme al diritto europeo risulta, cioè, la previsione di un limite quantitativo fisso, sganciato dalle circostanze del caso concreto, e non invece restrizioni giustificate dall’esigenza di tutelare l’esecuzione di lavori in specifici settori. Nel caso dei beni culturali, allo stesso è accordata una particolare protezione rinvenibile nell’art. 36 TFUE in base al quale i principi in tema di libera circolazione delle imprese «lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale».

In questo senso, la pronuncia della Corte costituzionale potrebbe aiutare ad individuare il punto di equilibrio, ancora di difficile afferrabilità, fra l’esigenza di apertura del mercato, attraverso la rimozione di limiti fissi al subappalto, e quella ad una regolamentazione delle procedure di gara maggiormente restrittiva e rigorosa, ove ciò si renda necessario in ragione della specificità del settore in cui si opera. Le sentenze della Corte di Giustizia che si sono occupate del tema hanno, infatti, ammesso una sorta di «deroga» alla libera subappaltabilità delle prestazioni dedotte in contratto ove si renda necessario «disciplinare in maniera più specifica […] le situazioni in cui l’offerente fa ricorso al subappalto» (punto 29 della sentenza «Vitali» del 26 settembre). Tale formula, tuttavia, non risulta ancora definita con precisione, prestandosi così a ricostruzioni differenti nell’ordinamento interno: il T.a.r. per il Lazio, nella sentenza 24 aprile 2020, n. 4183 (con commento su questo sito di  G. F. Maiellaro, I limiti al subappalto dei contratti pubblici: così è se vi pare) l’ha ad esempio utilizzata per ritenere ammissibile l’innalzamento del limite dal 30 al 40 per cento ad opera del decreto «sblocca cantieri» (d.l. n. 32/2019, convertito con modificazioni dalla l. n. 55/2019).

In realtà, la previsione cui fa riferimento la Corte di Giustizia è contenuta al paragrafo 8 dell’art. 71 della direttiva 2014/24/UE relativo al subappalto, ove la facoltà per «gli Stati membri di limitarne l’applicabilità, ad esempio in relazione a determinati tipi di appalti, a determinate categorie di amministrazioni aggiudicatrici o operatori economici ovvero a determinati importi» è collocata in coda alla disposizione e ricollegata – attraverso la locuzione «in tale contesto» – alla prima parte della norma, che rinvia a specifiche misure (quelle di cui ai paragrafi 3, 5 e 6 della medesima disposizione) che possono essere adottate dagli Stati membri per prevedere: il trasferimento dei pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore; l’acquisizione delle informazioni relative a quest’ultimo – e le eventuali modifiche – dopo l’aggiudicazione e al più tardi all’inizio dell’esecuzione del contratto; la verifica della sussistenza di motivi di esclusione – obbligatori o non obbligatori – anche in capo al subappaltatore, imponendone, eventualmente, la sostituzione.

Sempre nella sentenza europea, viene valorizzato il contrasto al fenomeno delle infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti pubblici quale obiettivo che può legittimamente giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione (punto 37). Infine, nel ritenere il divieto di utilizzo del subappalto oltre una determinata percentuale incompatibile con la corrispondente normativa europea poiché, operando indistintamente per tutte le procedure, non consente di tenere conto del «settore economico interessato», della «natura dei lavori» o dell’ «identità dei subappaltatori», la Corte di Giustizia ne evidenzia l’illegittimità in quanto «non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore» e trova applicazione «anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione» (punti 40 e 41).

Pertanto, stando alle statuizioni dei giudici europei – che necessiterebbero di talune precisazioni – le ipotesi eccezionali di deroga alla subappaltabilità delle prestazioni contrattuali sembrerebbero pur sempre ricollegabili a quanto previsto dall’art. 71 della direttiva ovvero all’esigenza di arginare il rischio di ingerenze mafiose nelle attività imprenditoriali o, comunque, a situazioni in cui la valutazione concreta del caso di specie da parte dell’amministrazione suggerisca l’adozione di regole più stringenti, per i casi in cui non siano ad esempio verificabili le identità dei subappaltatori, quindi ipotesi in cui le condizioni concrete di svolgimento dell’appalto e di esecuzione delle prestazioni richiedano maggiori garanzie.

Tornando alla questione di legittimità rimessa alla Corte costituzionale, alla luce di quanto sopra affermato, la circostanza che l’appalto riguardi il settore dei beni culturali – ma le medesime considerazioni potrebbero valere anche per altre ipotesi all’esame della giurisprudenza amministrativa (cfr. I. Picardi, Limiti quantitativi al subappalto e opere «super specialistiche»: nuovo giro di giostra per l’art. 105, d.lgs. n. 50 del 2016) – prescindendo da specifiche valutazioni dei singoli appalti, potrebbe non risultare di per sé sufficiente a giustificare la previsione di restrizioni all’utilizzo del subappalto anche in tale settore, adombrandosi nuovamente il rischio dell’introduzione di limiti quantitativi di carattere generale e astratto, se non addirittura del divieto di utilizzo dell’istituto. Nel settore dei beni culturali, tali valutazioni dovrebbero, peraltro, spingersi sino a verificare che il subaffidamento a terzi dei lavori non garantisca un’adeguata tutela e conservazione dei beni medesimi.