Nuovi dubbi di legittimità costituzionale della disciplina antimafia

Il T.a.r. per il Friuli Venezia Giulia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, d.lgs. 159 del 2011 nella parte in cui fa automaticamente derivare dalla abusiva captazione di finanziamenti pubblici (artt. 640, secondo comma, n. 1 e 640 bis c.p.) i divieti, le sospensioni e le decadenze previste dalla medesima norma

5 Giugno 2020
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Il T.a.r. per il Friuli Venezia Giulia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, d.lgs. 159 del 2011 nella parte in cui fa automaticamente derivare dalla abusiva captazione di finanziamenti pubblici (artt. 640, secondo comma, n. 1 e 640 bis c.p.) i divieti, le sospensioni e le decadenze previste dalla medesima norma

T.a.r. Friuli Venezia Giulia, sez. I, ordinanza 26 maggio 2020, n. 160

  1. Premessa

Con l’ordinanza in commento, il T.a.r. per il Friuli Venezia Giulia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, d.lgs. 159 del 2011 per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e degli artt. 25, 27, 38 e 41 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU.

In particolare, la previsione sospettata di incostituzionalità è quella contenuta nell’ultimo periodo della disposizione, ove si prevede che i divieti, le sospensioni e le decadenze, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo elencati al citato art. 67 e conseguenti all’applicazione delle misure di prevenzione personali previste dallo stesso Codice antimafia (al libro I, titolo I, capo II del Codice, cioè quelle applicate dall’autorità giudiziaria, quali la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, il divieto di soggiornare in uno o più comuni, diversi da quelli di residenza o di dimora abituale, o in una o più regioni, ovvero l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale) operino anche nei confronti degli autori dei reati di truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico (ex art. 640, secondo comma, numero 1 c.p.) e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (ex art. 640-bis c.p.) che siano stati condannati con sentenza definitiva o, quantomeno, confermata in grado di appello.

L’introduzione delle citate fattispecie di reato nel testo della norma si inserisce nel più ampio quadro di modifiche normative di recente apportate a taluni settori dell’ordinamento dal c.d. decreto “sicurezza” del 2018 (decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132) al fine di rinforzare la tutela dell’ordine pubblico (a cui si aggiungono ulteriori misure relative alla sicurezza urbana e al diritto dell’immigrazione).

Prima di tale intervento legislativo, l’art. 67, comma 8 faceva infatti riferimento alle sole sentenze di condanna (definitive o pronunciate in secondo grado) aventi ad oggetto i reati di associazione per delinquere o di tipo mafioso e le fattispecie scopo ad essi connesse (si tratta, nello specifico, dei reati elencati all’art. 51, comma 3-bis del codice di procedura penale, cioè i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’articolo 12, commi 1, 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall’articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43), che per la loro gravità giustificano l’applicazione nei confronti dei relativi autori degli automatici effetti interdittivi sopraconsiderati.

Dunque, al fine della determinazione dei divieti e delle decadenze di cui all’art. 67, finiscono, oggi, per essere collocate sullo stesso piano l’ipotesi di applicazione delle misure di prevenzione antimafia, la condanna per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p. e, infine, la condanna per i reati di cui agli artt. 640 e 640-bis c.p. Ed è proprio intorno a tale sostanziale parificazione che si annidano i dubbi di legittimità costituzionale (sub specie di ragionevolezza) della disciplina sollevati dai giudici del T.a.r. per il Friuli Venezia Giulia.

  1. La vicenda controversa e la posizione del Consiglio di Stato in sede di appello cautelare

Il contenzioso da cui è scaturita l’ordinanza in commento riguardava, nello specifico, l’impugnazione da parte del ricorrente di un provvedimento adottato ai sensi degli artt. 67 e 92 del d.lgs. 159 del 2011 dal Prefetto di Udine a seguito di una sentenza di condanna (divenuta irrevocabile) pronunciata nei suoi confronti ai sensi art. 444 c.p.p. per il reato di cui all’art. 640-bis c.p. La condotta incriminata assume, in questo caso, particolare rilievo ai fini della corretta comprensione dell’origine della questione interpretativa sollevata dai giudici del T.a.r. Friuli: in estrema sintesi, il reato contestato al ricorrente era consistito nell’aver posto in essere artifizi e raggiri per conseguire fondi europei, facendo risultare lavori di ristrutturazione di un immobile per finalità di commercializzazione dell’acquacoltura regionale in luogo della vera natura degli interventi, funzionali in realtà alla ristrutturazione di un immobile ad uso abitativo. Si trattava, quindi, di un reato in alcun modo ricollegabile ad attività della criminalità organizzata o indicativo del rischio di contiguità mafiosa.

Le contestazioni articolate dalla ricorrente si sono principalmente incentrate sulla violazione dei principi cardine della materia sanzionatoria, quali quello di irretroattività e tassatività, interpretati anche alla luce del diritto convenzionale e sovranazionale europeo, e sulla ritenuta incostituzionalità, sotto i profili della ragionevolezza e della proporzionalità, dell’art. 67, comma 8 citato, con particolare riferimento all’inserimento dell’art. 640 bis c.p. nell’elenco dei reati che implicano l’emanazione della “interdittiva antimafia”.

In sede cautelare, il Collegio ha rigettato l’istanza di parte ricorrente (ord. n. 74/2019) sul presupposto che “l’art. 640 bis c.p., introdotto dal legislatore come causa ostativa al rilascio della liberatoria antimafia, è una disposizione quanto mai opportuna, considerato il carattere pervasivo e la capacità di espansione geografica delle attività imprenditoriali da parte delle associazioni mafiose, il che vale di per sé, non solo a giustificare l’estensione dell’applicazione dei commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 67 del d.lgs. 159/2011 a reati non tipicamente mafiosi, ma anche e soprattutto a precludere, al contempo, a questo giudice una valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente”.

In sede di appello, tale decisione è stata, tuttavia, riformata dal Consiglio di Stato (sez. III, ord. n. 5921 del 2019) che, con riguardo ai temi che qui rilevano, ha ritenuto necessari ulteriori approfondimenti in sede di merito in ordine “alla portata retroattiva della nuova previsione di cui all’art. 67, comma 8, ultimo periodo” e “alla intrinseca ragionevolezza della disposizione, anche in relazione ai profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettati dalla parte ricorrente e comunque rilevabili d’ufficio”. All’esito del giudizio, il T.a.r. Friuli ha quindi rimesso alla Consulta la questione interpretativa in esame, articolandola nei termini che seguono.

  1. Il giudizio di legittimità costituzionale promosso dal T.a.r. Friuli Venezia Giulia

Il ragionamento del T.a.r. Friuli (e prima ancora quello del Consiglio di Stato in sede di appello cautelare) prende le mosse da una preliminare ricognizione della disciplina delle misure di prevenzione antimafia a carattere interdittivo, al fine di valutare se la ratio ad esse sottese possa essere ritenuta comune alla disposizione inserita nell’ultimo periodo dell’art. 67, comma 8 d.lgs. 159/2011.

In linea generale – ricorda il Collegio – le misure antimafia, in considerazione della loro funzione preventiva e non afflittiva, ricollegata all’interesse pubblico primario del contrasto alle organizzazioni mafiose, possono attribuire rilevanza anche a fatti (e reati) accaduti in un tempo precedente all’entrata in vigore della normativa che le prevede ovvero fondarsi su accertamenti semplificati. Nella materia della prevenzione della criminalità organizzata, il legislatore è infatti titolare di un’ampia discrezionalità valutativa, e tale libertà può legittimamente manifestarsi anche attraverso la previsione di effetti interdittivi automatici riconducibili al verificarsi di determinate circostanze considerate indicative del rischio di contaminazione mafiosa del tessuto sociale ed economico.

Ciò premesso – prosegue il T.a.r. Friuli – nella definizione di tali ipotesi resta pur sempre fermo il controllo di ragionevolezza e proporzionalità delle disposizioni legislative ai sensi dell’art. 3 Cost., secondo i parametri sviluppati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché l’esigenza di rispettare i criteri imposti dal diritto convenzionale e sovranazionale europeo in materia di tutela dei diritti fondamentali.

In tale prospettiva, appare allora dubbia la ragionevolezza della disposizione inserita nell’ultimo periodo dell’art. 67, comma 8 nella misura in cui parifica – ai fini della determinazione degli automatici effetti interdittivi – l’adozione di una misura di prevenzione tipica e la condanna per gravissimi reati a struttura associativa, finalizzati alla commissione di specifici “delitti-scopo” ed espressione di un’attività criminale organizzata di carattere economico, alla diversa ipotesi della condanna per il reato di cui all’art. 640 bis c.p., il quale non ha struttura associativa, risulta punito con sanzioni inferiori e, nella sua configurazione normativa, non è necessariamente correlato ad attività di tipo mafioso.

Alla luce di ciò, l’automatismo interdittivo previsto dal citato art. 67 del Codice antimafia in caso di condanna per il reato di cui all’art. 640-bis c.p. “potrebbe risultare, allo stato, irragionevolmente sproporzionato rispetto alla finalità preventiva perseguita dal legislatore, il che alimenta anche l’ulteriore dubbio sulla legittimità della sua applicabilità retroattiva, potendosi ipotizzare che la sua finalità sia sostanzialmente punitiva e non preventiva, con la conseguente applicazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di irretroattività delle norme penali”. Prendendo in considerazione un reato non direttamente riconducibile alla criminalità organizzata, ma al più costituente una mera circostanza da cui desumere elementi sintomatici di contiguità al fenomeno mafioso della specifica condotta posta in essere nel caso concreto, la disposizione in esame, laddove fa derivare automatici effetti ostativi, sembra in definitiva eccedere lo scopo suo proprio, cioè prevenire e contrastare il dilagare dell’ingerenza della criminalità organizzata nel tessuto socio-economico. E dunque, sotto tale profilo, le conseguenze gravemente pregiudizievoli derivanti dall’applicazione dell’art. 67, comma 8 non sembrano potersi ritenere neppure direttamente e immediatamente correlate all’interesse pubblico generale a preservare l’integrità del mercato, ma sembrano piuttosto elidere, in spregio ai principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., la libertà di iniziativa economica assicurata dall’art. 41 Cost. e la possibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa, professionale ed economica soggetta a “iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo”.

I dubbi sulla ragionevolezza dell’art. 67, comma 8, ultimo periodo non sembrano neppure superabili ricorrendo ad un’interpretazione sistematica o teleologica della disposizione in esame.  

Sotto il primo versante, si tenga conto per esempio della circostanza che la condanna per il reato di cui all’art. 640-bis c.p. (insieme alle ipotesi di condanna per altri titoli di reato, previsti dagli artt. 353, 353-bis, 603-bis, 629, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356) è considerata all’art. 84, comma 4, lett. a) dello stesso Codice antimafia come elemento da cui è possibile inferire (senza, però, alcun automatismo probatorio) la sussistenza di un rischio concreto di infiltrazione mafiosa, ai fini dell’adozione di un’informativa prefettizia. Pertanto, nel contesto dell’art. 84, risulta perfettamente coerente la collocazione dell’art. 640-bis c.p. tra i “delitti-spia” significativamente indicativi della capacità di penetrazione nell’economia legale da parte della criminalità organizzata.

Invece, sotto il secondo versante, quello degli obiettivi avuti di mira dal legislatore, nessun elemento utile che possa indurre a ritenere ragionevolmente giustificato l’inserimento del reato di cui all’art. 640-bis c.p. tra quelli aventi immediata e automatica valenza ostativa risulta ritraibile dagli atti preparatori del d.l. 113/2018 ove si precisa solamente che con l’intervento modificativo in esame si era inteso sostanzialmente porre rimedio ad una lacuna normativa in quanto i reati di cui agli artt. 640 e 640-bis c.p. “nonostante siano nella prassi le attività delittuose poste in essere più frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti, non figurano nel quadro normativo attuale tra le ipotesi rilevanti al fine del diniego del rilascio della documentazione antimafia”. Ma tali fattispecie, si legge sempre nell’ordinanza di rimessione, non rientrano in realtà nel novero di quelli effettivamente legati ad attività distorsive in materia di appalti pubblici, sicchè le spiegazioni fornite dal legislatore costituiscono in definitiva una “non giustificazione”, poiché non offrono alcuna evidenza delle concrete ed effettive ragioni per cui gli stessi sono stati messi sullo stesso piano di altri gravissimi reati, pur essendo palesemente diverso il grado di disvalore delle condotte sanzionate.

  1. Alcune brevi considerazioni conclusive

Ciò che difetta, dunque, nella previsione sopra esaminata è l’effettivo collegamento dell’ipotesi ivi prevista ad elementi sintomatici ed indiziari del concreto pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenze nell’attività imprenditoriale da parte della criminalità organizzata, che nell’impianto della normativa antimafia complessivamente intesa legittima – non senza perplessità – l’applicazione di misure preventive caratterizzate da un’elevatissima capacità afflittiva, e purtuttavia affidate all’autorità amministrativa, idonee a determinare, in capo ai destinatari, una sostanziale compressione dei diritti fondamentali e delle garanzie costituzionali (prima fra tutte quella della libertà dell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.).

Nella disciplina antimafia, tale frizione con l’ordinamento costituzionale (e sovranazionale) trova infatti giustificazione proprio nelle superiori finalità di tutela dell’ordine pubblico economico, della leale concorrenza nel mercato e del corretto utilizzo delle risorse pubbliche, avute di mira dal d.lgs. 159/2011. L’esigenza di colpire in anticipo il fenomeno mafioso, fa sì, quindi, che alle misure in esame venga attribuita – dalla giurisprudenza prevalente – natura cautelare e preventiva, nonostante l’elevato grado di afflittività che le contraddistingue, con conseguente impossibilità di fare ricorso a talune fondamentali garanzie (sul punto, cfr. I. Picardi, Informazione interdittiva antimafia: è conforme al diritto europeo l’assenza di contraddittorio tra la Pubblica Amministrazione e il destinatario del provvedimento?). Tuttavia, come di recente ribadito dalla stessa Corte costituzionale (sent. 57/2020), una risposta amministrativa di tale portata non può in ogni caso ritenersi, sotto il profilo della ragionevolezza, sproporzionata rispetto ai valori in gioco, la cui tutela impone un’anticipazione della soglia della difesa sociale a fronte del pericolo di penetrazione della criminalità organizzata nell’economia.

Anche le ipotesi descritte dal citato art. 67, diverse da quella sospettata di illegittimità costituzionale, rispondono a tale logica in quanto il divieto di ottenere benefici, erogazioni pubbliche, autorizzazioni, concessioni e iscrizioni di vario genere conseguono (automaticamente) all’applicazione di misure di prevenzione personale, che operano, però, in presenza di gravissimi reati di matrice mafiosa, ovvero in caso di condanna per reati associativi sempre della medesima tipologia, e quindi in presenza di fattispecie che indicano un verosimile pericolo di condizionamento criminale. Invece, nella previsione esaminata dai giudici rimettenti, tale necessario elemento di legittimazione – riconosciuto come tale anche dalla medesima Corte costituzionale – stenta ad individuarsi, in quanto i reati di cui agli artt. 640 e 640 bis c.p., pur nella loro spiccata offensività e insidiosità, non sono di per sé direttamente riconducibili ad attività illecite delle organizzazioni criminali, (come dimostrato anche dal caso di specie sottoposto all’attenzione del T.a.r. Friuli). Eppure, anche in tali ipotesi, gli effetti preclusivi di cui all’art. 67 operano automaticamente, senza alcun temperamento, sempre nel nome della massima anticipazione preventiva della tutela dell’ordine pubblico, finendo per scardinare – questa volta, però, in assenza di ragionevoli giustificazioni – le garanzie costituzionali.

La pronuncia della Consulta, sollecitata dal T.a.r. Friuli con l’ordinanza qui in commento, potrebbe dunque contribuire a ricomporre il (delicato) equilibrio fra la disciplina antimafia e il sistema costituzionale (e sovranazionale ed europeo), sempre più di frequente auspicato dalla giurisprudenza amministrativa. E un segnale significativo in tal senso sembra pervenire anche dall’ordinanza pronunciata nel caso di specie dal Consiglio di Stato, solitamente maggiormente refrattario rispetto ai tribunali amministrativi regionali a mettere in discussione i caratteri specifici delle misure preventive antimafia e dei loro effetti (in argomento, cfr. ancora I. Picardi, Ancora sull’informazione interdittiva antimafia: la finalità preventiva sottesa al provvedimento può legittimamente comportare un’attenuazione (se non una eliminazione) del contraddittorio procedimentale).

Pubblicato il 26/05/2020
00160/2020 REG.PROV.COLL.
00238/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia
(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 238 del 2019, proposto da

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Luca De Pauli e Mara Del Bianco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dell’Interno (Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Udine, Prefetto di Udine), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Trieste, presso la quale è, del pari, per legge domiciliato in Trieste, piazza Dalmazia, 3;

per l’annullamento

a) del provvedimento prot. -OMISSIS- del Sig. Prefetto di Udine, recante comunicazione “che, per le motivazioni suindicate, nei confronti del Sig. -OMISSIS-, nato a -OMISSIS-, residente a -OMISSIS-, sussistono alla data odierna le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all’art. 67 del Decreto Legislativo n. 159/2011”con effetto di “informazione antimafia interdittiva”,notificato a mani proprie in data 15.7.2019;

b) dei presupposti verbali delle riunioni del Gruppo Interforze costituito presso la Prefettura di Udine – UTG con decreto n. -OMISSIS-, “durante le quali è stato convenuto di disporre un provvedimento interdittivo ai sensi della normativa antimafia”(di cui è menzione nel provvedimento sub a), ma mai comunicati né partecipati e di estremi sconosciuti);

c) di tutti gli altri atti a tali provvedimenti comunque connessi, presupposti e/o conseguenti, anche non conosciuti;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 gennaio 2020 la dott.ssa Manuela Sinigoi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

La vicenda fattuale 

Il ricorrente – condannato con sentenza del Tribunale di Udine, Uff. GIP, n. -OMISSIS-depositata il 14 marzo 2017 e divenuta irrevocabile il 28 aprile 2017, pronunciata ex art. 444 c.p.p., alla pena di mesi tre e giorni diciotto, convertita nella multa di euro ventisettemila, per il reato di cui all’art. 640-bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), commesso nell’anno 2013, reato consistente nell’aver posto in essere artifizi e raggiri per conseguire fondi europei dell’importo di euro 42.000,00, facendo risultare lavori di ristrutturazione di un immobile per finalità di commercializzazione dell’acquacoltura regionale, “in luogo della vera natura degli interventi, che erano funzionali alla ristrutturazione di un immobile ad uso abitativo nell’interesse dell’imputato e del suo nucleo familiare” – ha impugnato innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale, invocandone l’annullamento, il provvedimento in epigrafe compiutamente indicato, adottato ai sensi degli articoli 67 e 92 del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), come modificato dall’art. 24, comma 1, lett. d) d.l. n. 113 del 2018, conv. con modificazioni nella l. n. 132 del 2018, con cui il Prefetto di Udine ha comunicato alla locale Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura che nei confronti del medesimo sussistono le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all’art. 67, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati.

L’Amministrazione ha fatto, invero, esplicita applicazione nei suoi confronti della previsione contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 67, comma 8, introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera d) del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018 n. 132, il quale ha previsto che gli effetti automaticamente interdittivi conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all’art. 640-bis c.p., così ampliando le ipotesi contemplate dalla disposizione, originariamente riferite ai casi della sottoposizione ad una misura di prevenzione definitiva prevista dal libro I, titolo I, capo II del codice antimafia, oppure dalla condanna (definitiva o anche non definitiva, purché confermata in appello) per uno dei gravi reati associativi di cui all’art. 51, comma 3-bis del codice di procedura penale (delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’art. 12, commi 1, 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, e dall’articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43).

L’interessato ha quindi, come detto, gravato il provvedimento lesivo, denunciandone l’illegittimità per:

  1. “Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241) – Violazione del principio del giusto procedimento”; 
  2. “Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 67 d.lgs. 6.9.2011, n. 159, in relazione all’art. 25 co. 2 Cost. e all’art. 2 c.p.) – Violazione del principio di irretroattività della legge penale – Violazione dell’art. 7 CEDU”;
  3. “Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 67 d.lgs. 6.9.2011, n. 159, in relazione all’art. 444 e all’art. 445 c.p. – art. 14 preleggi) – Violazione del principio di tassatività in materia sanzionatoria”; 
  4. “Violazione e/o falsa applicazione di legge per incostituzionalità in parte qua dell’art. 67 d.lgs. 6.9.2011, n. 159, con particolare riferimento all’inserimento dell’art. 640 bis c.p. nell’elenco dei reati che implicano l’emanazione della <interdittiva antimafia> ad opera dell’art. 24, co. 1, lettera d), del d.l. 4.10.2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1.12.2018, n. 132 (violazione dell’art. 3 Cost., 25 Cost., 27 Cost., 38 Cost., 41 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU e all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità – eccesso di potere legislativo)”.

Il Ministero dell’Interno, costituito in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Trieste, ha puntualmente controdedotto alle avverse censure e invocato la reiezione del ricorso.

All’esito dell’udienza camerale dell’11 settembre 2019, questo Tribunale, con ordinanza cautelare n. 74/2019, ha denegato al ricorrente l’invocata misura cautelare, osservando che:

“- nei procedimenti volti all’adozione dell’interdittiva antimafia non è dovuta la comunicazione di cui all’art. 7 della legge 241/90, trattandosi di procedimenti intrinsecamente caratterizzati da riservatezza e urgenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 28 giugno 2017, n. 3171; id, sez. VI, 29 febbraio 2008 n. 756; id, sez. V, 12 giugno 2007, n. 3126 e 28 febbraio 2006, n. 851); 

– la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di affermare che l’interdittiva antimafia è provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost (cfr. Ad. Plen. n. 3/2018), derivandone che il carattere non punitivo e, anzi, la sua assimilabilità ad una misura di sicurezza, consente di ritenere la relativa applicazione assoggettata alla disciplina dettata dall’art. 200 c.p. in tema di successione di leggi nel tempo;

– la norma che viene in rilevo non ha sottratto alla sua applicazione le sentenze di applicazione della pena su richiesta, sentenze che – si rammenta – sono equiparate dalla legge ad una sentenza di condanna; 

– risultano condivisibili le argomentazioni della difesa erariale laddove richiama l’attenzione sul fatto che <… L’art. 640 bis c.p., introdotto dal legislatore come causa ostativa al rilascio della liberatoria antimafia, è una disposizione quanto mai opportuna, considerato il carattere persuasivo e la capacità di espansione geografica delle attività imprenditoriali da parte delle associazioni mafiose>, il che vale di per sé, non solo a giustificare l’estensione dell’applicazione dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 67 del d.lgs. 159/2011 a reati non tipicamente <mafiosi>, ma anche e soprattutto a precludere, al contempo, a questo giudice una valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente; 

– la sussistente (e irrevocabile) condanna per il reato di cui all’art. 640 bis c.p. (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) è, dunque, circostanza (pacificamente e) automaticamente ostativa al rilascio della liberatoria”.

Tale decisione è stata, pur tuttavia riformata dal Consiglio di Stato, sez. III, con ordinanza 18 ottobre 2019, n. 5291, in accoglimento dell’appello proposto dall’interessato.

Il giudice di appello ha ritenuto, in particolare, la pronuncia di questo Tar “parzialmente condivisibile, con riguardo alle argomentazioni riferite all’insussistenza della violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e all’equiparazione tra la sentenza di condanna e quella pronunciata in esito alla richiesta congiunta delle parti del processo penale (patteggiamento)”, ma necessitante, invece, di ulteriore approfondimento, in sede di merito, in relazione ai “temi decisori relativi alla portata retroattiva della nuova previsione di cui all’art. 67, comma 8, ultimo periodo e, in ogni caso, i temi relativi alla intrinseca ragionevolezza della disposizione, anche in relazione ai profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettati dalla parte ricorrente e comunque rilevabili di ufficio”.

In vista dell’udienza pubblica del 29 gennaio 2020, fissata per la trattazione del ricorso, il ricorrente ha dimesso memoria a migliore e conclusiva illustrazione delle proprie difese, insistendo, in particolare, sui profili di denunciata incostituzionalità della norma di cui è stata fatta applicazione nel caso concreto, traendo in tal senso conforto dalle diffuse e motivate riflessioni svolte al riguardo dal Consiglio di Stato in sede di appello dell’ordinanza cautelare di questo Tribunale.

La causa è stata, quindi, chiamata alla detta udienza e, poi, trattenuta in decisione.

All’esito della camera di consiglio che ne è seguita, questo Tribunale Amministrativo Regionale, melius re perpensa, ha pronunciato la seguente ordinanza, ritenendo, invero, sussistenti i presupposti per sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera d) del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018 n. 132 per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e degli artt. 25, 27, 38 e 41 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, laddove, all’ultimo periodo, prevede che gli effetti automaticamente interdittivi all’ottenimento, tra gli altri, di “altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati” (art. 67, comma 1, lett, f) conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all’art. 640-bis c.p..

Rilevanza della questione 

La questione è rilevante per le seguenti ragioni.

Al fine del decidere viene in rilievo la disposizione di cui all’art. 67, comma 8, del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera d) del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018 n. 132, che recita: “Le disposizioni dei commi 1, 2 e 4 si applicano anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, (…) per i reati di cui all’articolo 640, secondo comma, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all’articolo 640-bis del codice penale.”

In virtù di tale disposizione, di cui ha fatto puntuale applicazione il Prefetto di Udine, sono state, invero, ritenute sussistenti a carico del ricorrente, le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all’art. 67, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati.

Secondo il tenore letterale della norma, il ricorso dovrebbe essere respinto poiché il ricorrente ha riportato una condanna per il reato di cui all’art. 640-bis c.p..

Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione di legittimità costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio avrebbe un esito diverso, in quanto la riconosciuta incostituzionalità in parte qua della norma oggetto di applicazione determinerebbe, per l’appunto, l’annullamento dell’informazione antimafia interdittiva notificata al ricorrente quale effetto automatico della condanna riportata.

Il Tribunale ritiene, peraltro, che la norma positiva, così come formulata, non lascia, allo stato, alcuno spazio per un’eventuale lettura costituzionalmente orientata nei sensi prospettati dal ricorrente (ovvero escludendone la portata retroattiva, riferita cioè a comportamenti posti in essere e/o a sentenze pronunciate prima della sua entrata in vigore), dato che, come già osservato nell’ordinanza con cui è stata denegata al medesimo la tutela cautelare invocata, la natura cautelare e preventiva tipicamente propria dell’interdittiva antimafia ovvero il suo carattere non punitivo e, anzi, la sua assimilabilità ad una misura di sicurezza, consente di ritenere la relativa applicazione assoggettata alla disciplina dettata dall’art. 200 c.p. in tema di successione di leggi nel tempo.

Ad avviso del Collegio il profilo della retroattività potrebbe, dunque, essere apprezzato solo in uno con quello della ragionevolezza della disposizione, ma ciò pare possibile solo nell’ambito di un giudizio di costituzionalità e non, in via meramente interpretativa, da parte di questo giudice, ostandovi, per l’appunto, la formulazione della norma che prevede un automatismo ostativo al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati nei confronti di chi ha subito condanna per truffa aggravata.

Sulla non manifesta infondatezza della questione

Il Collegio condivide, innanzitutto, facendole proprie, le motivate osservazioni svolte dalla III Sezione del Consiglio di Stato nella su indicata ordinanza cautelare n. 5281/2019, laddove è stato posto, in particolare, l’accento sul fatto che:

“in linea generale, le misure di prevenzione antimafia a carattere interdittivo possono legittimamente attribuire rilievo anche a fatti (e reati) accaduti in un tempo precedente all’entrata in vigore della disciplina che le prevede, in considerazione della loro funzione preventiva e non afflittiva;

occorre peraltro verificare, di volta in volta, se la previsione di un effetto interdittivo automatico conseguente a determinate condanne penali persegua la finalità di completare il trattamento sanzionatorio correlato al reato o si colleghi all’interesse pubblico primario del contrasto alle organizzazioni mafiose;

nella materia della prevenzione della criminalità organizzata, infatti, il legislatore ordinario è titolare di un’ampia discrezionalità valutativa nella scelta delle misure ritenute idonee allo scopo, ancorché esse incidano sulle libertà economiche e si fondino su accertamenti semplificati;

detta discrezionalità può legittimamente manifestarsi anche attraverso la previsione di effetti interdittivi automatici collegati al verificarsi di determinate circostanze considerate pienamente indicative del rischio di contaminazione mafiosa del tessuto sociale ed economico;

tuttavia, anche nella definizione di tali ipotesi resta fermo il necessario controllo di ragionevolezza e di proporzionalità delle disposizioni legislative, ex art. 3 della Costituzione, secondo i parametri sviluppati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonché l’esigenza di rispettare i criteri imposti della CEDU e dalla Carta di Nizza in materia di tutela dei diritti fondamentali;

in tale prospettiva, è, allo stato, dubbia la ragionevolezza della norma inserita nell’ultimo periodo dell’art. 67, comma 8, nella misura in cui essa parifica – ai fini della determinazione degli automatici effetti interdittivi – alla situazione della definitiva adozione di una misura di prevenzione tipica, adottata all’esito dei procedimenti di cui al libro primo, titolo I, capo II, del codice antimafia, e alla situazione della condanna di gravissimi reati a struttura associativa, finalizzati alla commissione di specifici delitti (espressione quindi di un’attività criminale organizzata di carattere economico) la diversa ipotesi della condanna per il reato di cui all’art. 640-bis, il quale non ha struttura associativa, risulta punito con sanzioni molto inferiori e, nella sua configurazione normativa, non è necessariamente correlato ad attività della criminalità organizzata (come, del resto, risulta in concreto accertato dalla sentenza di condanna patteggiata subita dall’appellante);

il dubbio sulla ragionevolezza di tale previsione deriva altresì dalla circostanza che la condanna per il reato di cui all’art. 640-bis (insieme alle ipotesi di condanna per altri titoli di reato, previsti 353, 353-bis, 603-bis, 629, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356) nello stesso codice antimafia, all’art. 84, comma 4, lettera a) è opportunamente considerato come elemento da cui è possibile inferire (senza, però, alcun automatismo probatorio) la sussistenza di un rischio concreto di infiltrazione mafiosa o della criminalità organizzata, ai fini dell’adozione di un’informativa interdittiva;

in tal senso, nel contesto dell’art. 84, risulta perfettamente coerente la collocazione dell’art. 640-bis tra i <delitti-spia> significativamente indicativi della capacità di penetrazione nell’economia legale da parte della criminalità organizzata, come ben evidenziato dal decreto cautelare presidenziale n. 4808/2019”.

Alla luce di quanto sin qui riportato pare, quindi, potersi rilevare, come già anche la III Sezione del Consiglio di Stato, che il previsto effetto interdittivo automatico della condanna per il reato di cui all’art. 640-bis, previsto dall’art. 67 del codice antimafia, potrebbe risultare, allo stato, irragionevolmente sproporzionato rispetto alla finalità preventiva perseguita dal legislatore, il che alimenta anche l’ulteriore dubbio sulla legittimità della sua applicabilità retroattiva, potendosi ipotizzare che la sua finalità sia sostanzialmente punitiva e non preventiva, con la conseguente applicazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di irretroattività delle norme penali.

Con riguardo al profilo della ritenuta violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione pare, inoltre, opportuno ricordare che la ragionevolezza delle leggi è corollario del principio di uguaglianza ed esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate, o congruenti, rispetto al fine perseguito dal legislatore, con la conseguenza che sussiste la violazione di tale principio laddove si riscontri una contraddizione all’interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito che costituisce un limite al potere discrezionale del legislatore, impedendone un esercizio arbitrario.

Nel caso di specie, il dubbio di costituzionalità riguarda una norma la quale fa derivare un effetto interdittivo automatico a carico di soggetti che sono stati condannati per un reato (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) che non è riconducibile tout court alla criminalità organizzata di tipo mafioso e che può, al più, costituire mera circostanza da cui desumere, nello specifico caso concreto e attraverso una compiuta e diffusa valutazione di carattere necessariamente discrezionale, elementi sintomatici di contiguità al fenomeno mafioso della specifica condotta posta in essere. La disposizione, laddove fa derivare automatici effetti ostativi, appare, quindi, eccedere lo scopo che si propone che è quello di contrastare, mediante apposite misure di carattere preventivo, il dilagare dell’ingerenza da parte della criminalità organizzata nel tessuto socio-economico, che – come ripetutamente evidenziato dal Consiglio di Stato – ha effetti inquinanti e falsanti il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana (ex multis Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651).

Al Collegio pare, dunque, che l’automatismo previsto nel caso specifico non sia direttamente e immediatamente correlato all’interesse pubblico generale a preservare l’integrità del tessuto economico sociale di mercato libero e competitivo e che piuttosto elida, in spregio ai principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., la libertà di iniziativa economica privata assicurata dall’art. 41 Cost. e la possibilità di svolgere qualsivoglia attività lavorativa, professionale ed economica soggetta a “iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo”.

Nel caso di specie – pur non essendovi (o, comunque, non essendo stata data alcuna evidenza) della sussistenza di effettive correlazioni alla “mafia” della condotta posta in essere dal ricorrente e sanzionata con la condanna da cui in sede amministrativa sono state fatte derivare nei confronti del ricorrente conseguenze così gravemente pregiudizievoli in forza della norma di legge di cui viene messa in dubbio la costituzionalità – il provvedimento impugnato incide, invero, compromettendola, sull’intera attività imprenditoriale del medesimo, soggetta a regime autorizzatorio, quali l’iscrizione alla camera di commercio e all’albo professionale degli ingegneri.

Nessun utile elemento che possa indurre a ritenere, comunque, ragionevolmente giustificato l’inserimento del reato di cui all’art. 640-bis c.p. tra quelli aventi immediata e automatica valenza ostativa risulta, peraltro, ritraibile nemmeno dagli atti preparatori della legge (relazione che accompagna il d.l. 113/2018 – Atto Senato n. 840, p. 21), ove si legge che: “La disposizione che modifica il comma 8 dell’articolo 67 (articolo 24, comma 1, lettera d), del decreto-legge) è finalizzata ad estendere gli effetti dei divieti e delle decadenze previsti dai commi 1, 2 e 4 del citato articolo derivanti dall’applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancor ché non definitiva, confermata in grado di appello, anche per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico di cui all’articolo 640, secondo comma, numero 1), del codice penale, e per quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’articolo 640-bis del medesimo codice. A seguito di tale intervento, conseguentemente, si applicano ai predetti soggetti le fattispecie ostative che impediscono il rilascio della documentazione antimafia, delle comunicazioni antimafia di cui all’articolo 84 e delle verifiche antimafia di cui all’articolo 85 del codice antimafia.

Ed invero i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico, di cui all’articolo 640, secondo comma, numero 1), del codice penale e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’articolo 640- bis dello stesso codice, nonostante siano nella prassi le attività delittuose poste in essere più frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti, non figurano, nel quadro normativo attuale, tra le ipotesi rilevanti al fine del diniego del rilascio della documentazione antimafia. A tale lacuna pone rimedio la disposizione in commento, che modifica il comma 8 dell’articolo 67 del codice antimafia”.

Come opportunamente osservato dal ricorrente nella memoria dimessa in vista dell’odierna udienza, i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico (art. 640 c.p.) e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), attribuiti alla competenza dei Tribunali territoriali, non rientrano, infatti, nel novero di quelli effettivamente legati ad attività distorsive in materia di appalti pubblici [come ad es. art. 353 c.p. (turbata libertà degli incanti), art. 353-bis c.p. (turbata libertà del procedimento di scelta del contraente), art. 354 c.p. (astensione dagli incanti); art. 356 c.p. (frode in pubbliche forniture)], sicché ritenere che gli stessi siano “nella prassi le attività delittuose poste in essere più frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti” costituisce, in effetti, una “non giustificazione” che viepiù avvalora l’irragionevolezza della disposizione legislativa in questione, in quanto non offre, tra l’altro, alcuna evidenza delle concrete ed effettive ragioni per cui sono stati messi sullo stesso piano dei gravissimi reati menzionati all’art. 51, c. 3-bis c.p.p. (attributi alla competenza della Procura Distrettuale Antimafia e quindi al Tribunale distrettuale), essendo oltremodo palese il diverso grado di disvalore delle condotte rispettivamente sanzionate.

Da ultimo preme, inoltre, ribadire, come già dianzi anticipato, che l’irragionevole assimilazione nel contesto della norma che qui viene in rilievo del reato di cui all’art. 640-bis c.p. a quelli, decisamente più gravi, indicati all’art. 51, c. 3-bis, c.p.p. si traduce sostanzialmente in un inasprimento, peraltro in assenza di un previa ed equa valutazione giudiziale e del legittimo e compiuto esercizio di tutte le prerogative difensive, del regime sanzionatorio previsto per il reato che assume rilievo, che si scontra inevitabilmente con i principi di cui agli artt. 25 e 27 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, in particolare laddove, come nel caso di specie, siffatti effetti pregiudizievoli vengono fatti derivare anche da sentenze pronunciate antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 24, c. 1, lettera d), del d.l. 4.10.2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1.12.2018, n. 132, che ha inserito l’art. 640-bis c.p.p. all’interno dell’art. 67, c. 8, d.lgs. 159/2011.

Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dianzi prospettata, la solleva d’ufficio, ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87 dell’11 maggio 1983, e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo, al contempo, il giudizio in corso.

Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è riservata alla decisione definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, I Sezione, dichiara rilevante per la definizione del presente giudizio e non manifestamente infondata, per le ragioni di cui in motivazione, la questione di costituzionalità dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera d) del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018 n. 132 per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e degli artt. 25, 27, 38 e 41 Cost., anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, laddove, all’ultimo periodo, prevede che gli effetti automaticamente interdittivi all’ottenimento, tra gli altri, di “altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati” (art. 67, comma 1, lett, f) conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all’art. 640-bis c.p..

Conseguentemente solleva la questione di legittimità costituzionale della norma citata nei sensi dianzi precisati.

Sospende, per l’effetto, il giudizio fino alla definizione dell’incidente di costituzionalità di cui alla questione data e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Manda alla Segreteria di provvedere alla notificazione della presente ordinanza alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché alla comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Ordina che la presente ordinanza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Vista la richiesta dell’interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte medesima.

Così deciso in Trieste nella camera di consiglio del giorno 29 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati:

Oria Settesoldi, Presidente

Manuela Sinigoi, Consigliere, Estensore

Nicola Bardino, Referendario

IL SEGRETARIO

Irene Picardi