Stretta della Corte costituzionale sulla legislazione antimafia: il ricorrere delle fattispecie di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1) e 640-bis c.p. non costituisce, di per sé, indice di appartenenza ad un’organizzazione criminale e non può comportare l’automatica applicazione di misure interdittive

Corte costituzionale, Sentenza 30 luglio 2021, n. 178

27 Settembre 2021
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Il reato di truffa, seppur commesso a danno dello Stato o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, non è necessariamente correlato ad attività della criminalità organizzata, e farne dipendere con rigida consequenzialità l’incapacità giuridica ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni appare pertanto non proporzionato ai caratteri del reato e allo scopo di contrastare il diffondersi del fenomeno mafioso

Corte costituzionale, Sentenza 30 luglio 2021, n. 178

 Con la sentenza in commento, i giudici della Corte costituzionale si sono pronunciati sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, lett. d), del c.d. decreto “sicurezza” del 2018 (d.l. n. 113/2018, recante, “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132/2018), di modifica all’art. 67, comma 8, d.lgs. n. 159/2011, promossa dal Tar per il Friuli-Venezia Giulia in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 Cost. – anche relativamente agli artt. 6 e 7 CEDU – e di cui si è dato conto anche su questo sito negli scorsi mesi (T.a.r. Friuli Venezia Giulia, sez. I, ord. 26 maggio 2020, n. 160, con commento di I. Picardi, Nuovi dubbi di legittimità costituzionale della disciplina antimafia, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti).

In sintesi, ad essere stato censurato dal giudice rimettente è l’ultimo periodo dell’art. 67, comma 8 sopra citato, nella parte in cui a seguito delle modifiche operate dal decreto “sicurezza” ha esteso l’automatica applicazione delle misure interdittive antimafia, già prevista dalla medesima disposizione per le ipotesi di condanna definitiva (o, ancorchè, non definitiva confermata in grado di appello) per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p., anche alle fattispecie di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1) c.p., commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e 640-bis c.p., seppur prive di natura associativa, punite con pene molto inferiori a quelle previste per i reati di cui al citato art. 51 e non necessariamente correlate ad attività della criminalità organizzata.

All’esito del giudizio, la Corte costituzionale ha dichiarato fondate le questioni sollevate dal Tar Friuli, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.

Il ragionamento della Consulta si è, in particolare, incentrato sulla differente natura riconducibile, rispettivamente, alle ipotesi di reato elencate all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e a quelle di truffa a danno dello Stato o di altro ente pubblico e truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui agli artt. 640 e 640-bis c.p.: mentre le prime (che, si ricorda, riguardano i delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’art. 12, commi 1, 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli artt. 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall’art. 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall’art. 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43) hanno una specifica valenza nel contrasto alla mafia e presentano, in gran parte, natura associativa ovvero una forma di organizzazione di base o comunque richiedono condotte plurime, oltre a prevedere pene che possono essere anche molto elevate, la fattispecie di cui all’art. 640-bis c.p. non ha natura associativa, né richiede la presenza di un’organizzazione volta alla commissione del reato, ma ha viceversa “una dimensione individuale, può riguardare anche condotte di minore rilievo […] ed è punito con pene più lievi (massimo edittale di sette anni), senza che vi siano tantomeno deroghe al regime processuale ordinario”.

Nel ragionamento della Consulta, tali differenze rendono contraria al principio di ragionevolezza la scelta legislativa di far derivare “con rigida consequenzialità” sia dalle fattispecie di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p., sia da quella di cui all’art. 640-bis c.p. la medesima incapacità giuridica del destinatario ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni. Se con riguardo al primo gruppo di reati, la loro “complessità” può giustificare gli automatici effetti interdittivi prodotti dalla comunicazione antimafia, l’ipotesi della truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche presenta “ben altra portata” e, pur potendosi riscontrare anche nell’ambito delle attività della criminalità organizzata, non costituisce di per sé un indice di appartenenza ad un’organizzazione criminale. Considerazioni analoghe sono formulate dai giudici costituzionali con riguardo al reato di cui art. 640, comma 2, n. 1) c.p. che prevede un trattamento sanzionatorio inferiore anche a quello di cui all’art. 640-bis c.p., e per il quale l’assimilabilità alle fattispecie di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p. appare pertanto ancora più sproporzionata ed eccessiva.

Dalle conclusioni di cui sopra discende, altresì, la contrarietà della nuova formulazione dell’art. 67, comma 8, d.lgs. n. 159/2011 anche all’art. 41 Cost. poiché l’automatismo derivante dalla disposizione censurata “provoca danni irragionevolmente elevati alla libertà di iniziativa economica sia sul piano patrimoniale, sia della reputazione imprenditoriale”.

Infine, ad ulteriore sostegno della propria decisione, la Consulta utilizza a contrario le medesime argomentazioni fatte valere dall’Avvocatura generale dello Stato per dimostrare l’infondatezza delle questioni promosse dal giudice a quo. In particolare, dall’analisi sistematica della normativa antimafia, emerge che l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640-bis c.p. (ma anche quella di cui all’art. 640 c.p.) è da considerarsi quale “reato spia” ai fini dell’applicazione nei confronti dell’indiziato di una misura di prevenzione ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. i-bis), d.lgs. n. 159/2011; costituisce un elemento da cui il prefetto può desumere un tentativo di infiltrazione mafiosa idoneo a consentire l’adozione di una informazione antimafia interdittiva; può comportare l’applicazione della pena accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione ai sensi degli artt. 32-ter e 32-quater c.p.

Ad avviso della Corte l’inclusione di tale reato fra le fattispecie (meramente) sintomatiche della criminalità organizzata non giustificherebbe – come pure tenta di sostenere l’Avvocatura nel corso del giudizio – l’applicazione automatica delle misure di cui all’art. 67, d.lgs. n. 159/2011, seppur allo scopo di contrastare il fenomeno delle organizzazioni di stampo mafioso. Anzi, la disciplina di cui sopra non farebbe altro che dimostrare “da un lato che la disposizione censurata s’inserisce in modo disarmonico in un contesto normativo nel quale, ai medesimi fini di contrasto alla penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto socio-economico, già sono regolate, seppur in modo diverso, le medesime misure limitative della libertà economica di chi sia destinatario di provvedimenti relativi al reato di cui all’art. 640-bis cod. pen.; e, dall’altro lato, e per la stessa ragione, che l’illegittimità costituzionale della novella legislativa lascia intatto il rilievo che tale reato possiede come indice d’infiltrazione mafiosa ai sensi dell’art. 84, comma 4, cod. antimafia”.

Seppur riferita ad una previsione specifica del d.lgs. n. 159/2011, la sentenza in commento si evidenzia in quanto la Corte costituzionale, nel valorizzare la capacità lesiva delle misure interdittive sopra esaminate che trova giustificazione nell’estrema pericolosità del fenomeno mafioso, sembra richiamare l’attenzione del legislatore all’equo bilanciamento dei contrapposti interessi alla libertà di impresa, da un lato, e alla tutela dell’ordine pubblico, dall’altro, ogniqualvolta si intervenga sulla normativa antimafia.

In questa prospettiva, la declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Consulta assume una rilevanza peculiare poiché tenta di porre un argine alla tendenza, invalsa anche nella prassi giurisprudenziale, a ricondurre entro il campo di applicazione della disciplina di cui al d.lgs. n. 159/2011 anche condotte non strettamente connesse con l’ambiente mafioso.

Seppur ispirata dall’esigenza di prevenire e contrastare il diffondersi della criminalità organizzata nel tessuto economico-sociale, tale tendenza ha talvolta comportato, come dimostra anche la novella oggetto di contestazione nel giudizio sopra esaminato, una vera e propria torsione della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 159/2011, ai fini della quale vengono collocate sullo stesso piano fattispecie fra loro diversificate. Con la sentenza qui in commento i giudici della Corte costituzionale riconducono, quindi, la normativa antimafia entro il suo ambito naturale di applicazione, circoscrivendolo alle condotte che presentino uno stretto collegamento con la criminalità organizzata. Essa apre, inoltre, la strada alla risoluzione, attesa per i prossimi mesi, dell’ulteriore questione di legittimità costituzionale promossa dal T.a.r. Piemonte, sempre con riferimento al decreto “sicurezza”, nella parte in cui ha aggiunto nel corpo dell’art. 67, comma 8, d.lgs. n. 159/2011 anche il riferimento al delitto di traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. (T.a.r. Piemonte, sez. I, 28 aprile 2021, ord. n. 448, con commento su questo sito di M. Alò, Rimessa alla Corte Costituzionale la legittimità dell’automatica emissione della comunicazione antimafia nei confronti di una società i cui soggetti apicali abbiano ricevuto una sentenza penale di condanna, confermata in grado di appello, per il reato di traffico illecito di rifiuti, anche in forma non associativa).

 

irene picardi